giovedì 16 febbraio 2017


La Leggenda del Grande Padre







Il vento turbinava incessante e freddo portando con sé i fiocchi di neve candida che sembravano danzare nell'aria come tante farfalle bianche, senza riuscire a posarsi, malgrado la terra ne fosse ormai ricoperta di uno strato spesso e perenne.

Edward, con il fiato che si condensava in tante nuvolette, si fermò un attimo a guardarsi intorno cercando di distinguere nella tormenta qualche punto di riferimento per evitare di perdersi. Davanti a sé l' ampia pianura si perdeva a vista d'occhio, tutta uguale e tutta maledettamente bianca e fredda.

Vestito interamente di pellicce per difendersi dal gelo, solo gli occhi verdi e profondi spuntavano dalla sciarpa e dal cappuccio che gli proteggevano la testa.

Seth, il suo amico lupo, dallo spesso mantello morbido e folto dalle molte tonalità di grigio e gli occhi di ghiaccio, cercò di attirare la sua attenzione dandogli impaziente una colpo contro la mano con il muso tutto bianco. Lui sapeva benissimo che non conveniva rimanere fermi ed esposti alla vista di chiunque troppo a lungo.

Da quando il meteorite era caduto sulla terra cinque generazioni prima, il modo di vivere degli uomini era drasticamente cambiato, così come il clima diventato gelido e inospitale.

Il pianeta, su cui ormai l'uomo era diventato un animale raro, a causa dell'impatto fortissimo, si era allontanato dal sole e adesso era costantemente avvolto da una nuvola di polvere e neve che non lasciava passare mai il calore necessario a sciogliere quel manto di ghiaccio ormai perenne.

I raggi del sole, non riuscivano a penetrare quella fredda barriera e gli uomini, ormai allo sbando, avevano dimenticato il vecchio modo di vivere e la tecnologia ritornando indietro nel tempo ad uno stile si vita assai più primitivo.

Tutto era cambiato e tutto era stato dimenticato, poiché la maggioranza della popolazione umana si era estinta nell'impatto e la restante era sopravvissuta a stenti e fatica.

Il nonno di Edward, quando quest'ultimo era ancora un bambino curioso, gli aveva raccontato molte favole a sua volta ereditate dal nonno di suo nonno. Parlavano di strani oggetti costruiti di ferro in grado di camminare da soli, di scatole parlanti e di uccelli che sfrecciavano nel cielo lasciando lunghe scie bianche, ma soprattutto di prati fioriti e cieli azzurri illuminati dai raggi ridenti del sole. E del caldo, quel desiderio perenne e quella sensazione ormai dimenticata , che avrebbe permesso di girare loro senza pellicce addosso e il germogliare della pianura che li circondava in mille colori invece dell'attuale distesa perennemente bianca.

Edward amava quelle favole inventate, che si tramandavano da generazione in generazione, amava le fantasie che creavano nella sua mente e le ascoltava avidamente sognando un mondo diverso mentre aiutava la mamma a cucire o conciare le pelli, oppure quando più grande accompagnava il padre a raccogliere la legna o imparava la difficile arte della caccia.

Era nato venticinque anni prima in un piccolo villaggio poco lontano da quello in cui adesso viveva e dove le poche persone che formavano quella ristretta comunità condividevano tutto per cercare di sopravvivere. Adesso ormai adulto era sposato con Bella, una delle poche ragazze originarie del villaggio, e aveva una bambina dal nome Renesmee che aveva festeggiato poche settimane prima i dieci anni. Una piccola donna. Una delle rare speranze di sopravvivenza del villaggio e del genere umano.



Edward la mattina precedente aveva preso alcune provviste e baciato sulla fronte le due donne che amava più della sua vita poi, con Seth, si era allontanato senza più girarsi diretto verso l'ampio bosco alla base delle montagne.

Bella, dal canto suo, lo aveva salutato con le lacrime agli occhi per la paura di non rivederlo più ma sapeva anche che, se uscire dal villaggio in cui vivevano era pericoloso, non andare a caccia significava morire di fame. E così, malgrado i rischi a cui si esponeva tute le volte, Edward aveva dovuto partire ed affrontare il freddo e i pericoli che quelle scorribande celavano costantemente. Per Bella l'unica consolazione era che con lui c'era Seth, il fedele compagno di avventure con cui Edward era cresciuto.

Il lupo che lui considerava ed amava come un fratello. Il lupo pronto a sacrificare la vita pur di difendere il suo padrone e la sua famiglia.



Si Seth. Purtroppo non riusciremo ad arrivare al villaggio prima che la luce svanisca. E' ancora troppo lontano e non mi va di accamparmi nella pianura per passare la notte, è troppo esposta ai pericoli. Andiamo a cercare un posto che ci permetta di proteggerci da questa tormenta e dal freddo di questa notte. Domani con il chiaro potremo finalmente tornare a casa.”

Poi con un sospiro Edward si girò e rientrò nel fitto bosco che aveva lasciato alle sue spalle. Accamparsi in quella bianca e uniforme distesa sarebbe stato da pazzi, mentre lì sicuramente avrebbe trovato qualcosa per nascondersi dal freddo e dai pericoli che l 'avvento di quella nuova era aveva portato con sé.

Non solo il meteorite aveva sconvolto la vita sulla terra e distrutto la civiltà umana, ma l'aveva arricchita di una nuova razza pericolosa e bellicosa: gli Uomini-Serpe.

Con il corpo simile a quello umano, questi nuovi e inopportuni inquilini, abituati a vivere nascosti nelle profondità della terra, si erano subito ambientati colonizzando il pianeta malgrado il clima rigido. Scavavano, infatti, le loro tane nelle profondità del terreno dove il gelo non riusciva a penetrare e ne uscivano soltanto per depredare i villaggi dei pochi umani superstiti. Edward, come tutti, non sapeva esattamente il perché lo facessero, ma gli Uomini-Serpe, chiamati così a causa della loro pelle che sembrava ricoperta di squame verdognole, attaccavano i villaggi senza rubare nulla, solo uccidendo gli adulti e portandosi via con sé i bambini.

Quale fosse la sorte di quelle povere creature innocenti rapite, nessuno lo sapeva.

E nessuno poteva o voleva scoprirlo perché nessun adulto sopravviveva mai ai saccheggi dei villaggi per cercare di svelare il mistero.

Erano poco più di bestie, feroci e crudeli e gli uomini armati di piccole lance, coltelli di selce e qualche antica arma di ferro sopravvissuta al meteorite, cercavano di difendersi costruendo villaggi fortificati, in modo da impedire il loro ingresso all'interno.

Villaggi proprio come quello che Edward aveva lasciato quella mattina per andare a caccia nel bosco, l'unico luogo ancora abitato da qualche raro animale.

Era stato fortunato ad imbattersi velocemente nel camoscio che adesso si trascinava dietro legato ad un palo e quando trovò uno spuntone roccioso tanto grande da potersi rannicchiare sotto per proteggersi dalla neve e dal vento freddo, Edward iniziò a scuoiare e pulire la sua preda. Portarsi dietro solo le parti utili gli avrebbe risparmiato parecchia fatica il giorno dopo e gli avrebbe permesso di attraversare più velocemente la pianura, esposta e pericolosa.

Con il coltello levò, con meticolosa attenzione per non danneggiarla, la pelle sfregandola poi con forza sulla terra e il pietrisco in modo da ripulirla il più possibile.

La carne invece la fece tutta a piccoli bocconi, prestando la massima perizia per non sprecare nemmeno una piccola parte del suo prezioso bottino.

Finita quella lunga e faticosa operazione per premio si arrostì qualche succulento bocconcino sul piccolo fuocherello fatto di legnetti secchi. E ovviamente qualche boccone crudo lo elargì volentieri a Seth insieme a qualche osso da sgranocchiarsi. In fondo era stato lui a fare il lavoro più difficile trovando con il suo fiuto e abbattendo con la sua agilità e potenza la preda per il suo amico umano.

Il resto del bottino invece fu seppellito nella neve in modo che congelasse e non andasse a male. A casa Bella lo avrebbe scongelato di volta in volta per cucinarlo mentre una buona parte sarebbe stato donato ai vicini del villaggio che a sua volta avrebbero all'occorrenza elargito erbe medicinali, pelli, legna e tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno. La condivisione delle risorse era infatti il modo più comodo e più semplice, per sopravvivere tutti in quel clima ostile. La piccola comunità sapeva che aiutarsi l'un con l'altro era l'unico modo per poter affrontare gli ostacoli che ogni giorno mettevano a rischio la loro vita. E come tutte le altre cose anche i loro figli, piccoli miracoli di vita, venivano accuditi e cresciuti in comunità e assieme avrebbero vissuto o sarebbero morti.



La notte passò veloce ed Eward ancora una volta ringraziò la presenza di Seth che rannicchiato vicino a lui sotto la coperta contribuì a scaldarlo abbastanza da consentigli di non perdere una mano o un piede a causa del gelo, e la mattina, mettendosi sulle spalle lo zaino, adesso molto più grosso e pesante a causa della carne congelata, riprese il cammino con la tenue luce che gli illuminava la pianura davanti a sé.



Dopo pochi passi fatti sulla quella piatta distesa di neve lui si voltò a guardare le montagne dietro alle sue spalle. Sembravano tanti denti aguzzi che si stagliavano lontani e scuri contro il cielo. Un giorno sarebbe salito lassù, si disse, solo per poter vedere cosa c'era oltre e se quel pazzo di Mike aveva raccontato la verità.

Il suo amico infatti sosteneva con veemenza di aver incontrato alcuni anni prima un vecchio, poi spirato fra le sue braccia, che gli aveva narrato di un posto al di là delle cime montuose dove il terreno era completamente verde e il sole illuminava e scaldava la valle da lui chiamata Eden.

Ma Edward era sicuro che l'Eden non esistesse e che il vecchio avesse delirato in punto di morte. E poi valicare le montagne era impossibile, si disse con un sospiro, volgendo i piedi e la mente nuovamente verso casa e il suo amore che l'attendeva.





A metterlo in allerta fu per prima la colonna di fumo scura che scorse all'orizzonte, poi il comportamento di Seth che con il pelo dritto annusava per terra e nell'aria emettendo bassi ringhi di paura.

Il fumo. Edward non poteva sbagliarsi. La striscia grigia e densa che si alzava nel cielo da dove avrebbe dovuto esserci il suo villaggio era troppo grande e scura per rientrare nella normalità.

Con la paura come compagna, il cuore che batteva tanto forte da rimbombargli nelle orecchie, l'adrenalina che scorreva impetuosa nelle vene, iniziò una folle corsa per raggiungere la sua famiglia. Non si guardò più in giro, smise di controllare e nascondersi per la paura degli uomini-serpe. L'unica cosa che contava era correre da loro. Era poter riabbracciare sua moglie e sua figlia.

Seth più agile e leggero lo precedette ed Edward lo vide sparire dietro alle porte sfondate della recinzione che avrebbe dovuto proteggere gli abitanti e tenere fuori i nemici.

Senza fermarsi in preda ad un terrore cieco, si fiondò dentro per poi immobilizzarsi di colpo.

Le capanne bruciavano e i corpi dei sui amici erano sparsi per terra riversi nella desolazione della morte. Gli occhi gli bruciavano. Forse era colpa del fumo o forse più probabilmente si stava rendendo conto dell'accaduto.

Stava infatti iniziando a realizzare che ciò che aveva lasciato il giorno prima non c'era più.

Con le guance rigate di lacrime salate che cristallizzavano irrigidendo la sciarpa, Edward iniziò ad avanzare lentamente guardandosi intorno sotto shock pregando che qualcuno lo svegliasse da quell'incubo orrendo.

Furono i guaiti disperati di Seth ad attirare la sua attenzione. Il lupo accucciato per terra piangeva sommessamente leccando il viso della sua padrona.

Bellaaa!”

L'urlo gli uscì dalla gola con la voce roca mentre in preda alla disperazione si precipitò, verso il corpo riverso di sua moglie: della donna che amava, della sua compagna di vita, di colei che aveva generato la sua bambina.

Bella era immobile.

Il corpo semi assiderato coperto dalla neve la faceva assomigliare ad una bambola di ceramica ed era talmente bianca in viso da sembrare una macabra scultura di ghiaccio.

Con dolcezza, Edward l'abbracciò stringendola convulsamente a sé, baciandole le guance gelide, cercando di riscaldare quel corpo freddo e immobile con il suo.

Bella” ripeté singhiozzando accarezzandole e spostandole dal viso esanime i lunghi capelli marroni coperti di cristalli bianchi.

Ed...ward” il suo sussurro fu poco più di un mormorio indistinguibile nel vento.

Bella sono qua. Resisti tesoro.” le rispose lui sollevato e disperato nel contempo mentre si apriva la giacca di pelliccia per scaldarla con il tepore del suo corpo.

Per me è troppo tardi. Non sento più nulla. Vai via Edward. Corri a cercare la nostra Renesmee, la nostra bambina” mormorò lei con un filo di voce impercettibile cercando di alzare le palpebre pesanti per guardare un ultima volta in viso il suo amore. Poi con un ultimo sforzo che sembrava titanico, incerta e tremante alzò un braccio per sentire il calore del suo viso, il profilo della sua mandibola squadrata, le lunghe ciglia che valorizzavano i suoi occhi verdi e magnetici che l'avevano fatta innamorare di quel ragazzo del villaggio vicino con cui il padre scambiava beni.

Adesso penso a tè. Costruisco una capanna, ti accendo un fuoco...” come poteva chiedergli di lasciarla lì a morire? Lui doveva salvarla!

Sto morendo amore mio. Per me è ormai troppo tardi. Il mio corpo è spezzato e congelato. Ma la nostra Renesmee è viva. Gli Uomini-Serpe hanno catturato anche lei insieme agli altri bambini. Devi trovarla! Devi salvare il frutto del nostro amore... ti prego. ”

Edward la guardò sconvolto sentendola tremare violentemente mentre stringeva forte la sua mano gelata per cercare di trattenerla con sé. Non era pronto a lasciarla andare via, ma Bella con un ultimo soffio di vita e un sorriso stentato gli mormorò con un filo di voce “ Addio, Edward, adesso devo proprio andare...” poi con un ultimo gemito soffocato spirò fra le sue braccia.





Sconvolto da quella perdita, piangendo sommessamente, continuando a stringerla a sé con la speranza che si svegliasse nuovamente, che non lo abbandonasse, Edward rimase lunghi minuti con il corpo di sua moglie adagiato fra le braccia, incapace di lasciarlo, incapace di arrendersi all'evidenza. La chiamava e l'accarezzava in lacrime nel tentativo disperato di richiamarla indietro.

Ma lei era morta. Il suo amore non c'era più. Lo aveva lasciato.

Sarebbe stato tanto facile sdraiarsi lì al suo fianco ed aspettare che il freddo prendesse anche lui portandolo dove era andata lei. Tanto semplice e confortante ma completamente assurdo.

Aveva una figlia ancora viva. Aveva la sua bambina per cui continuare a vivere e per cui lottare.

Gli Uomini-Serpe, l' avevano catturata e lui Edward l' avrebbe liberata. Lo doveva a Bella, lo doveva al loro amore ormai distrutto.



Ecco perché con la forza della disperazione scavò il più velocemente possibile nella terra gelata una fossa dove calare il corpo della sua Bella, ecco perché con le mani ancora sanguinanti e il dolore per compagno, senza perdere altro tempo se non quello di recuperare qualche oggetto utile, si mise con Seth sulle tracce di quelle bestie assassine.



Il lupo gli faceva strada. Se la neve che continuava a cadere incessante copriva le orme dei rapitori, il naso di Seth non si faceva ingannare e seguiva il loro odore caratteristico senza difficoltà.

Avevano diverse ore di vantaggio ma lui non si sarebbe arreso. Avrebbe corso fino allo sfinimento, avrebbe lottato e forse sarebbe morto nel tentativo di salvare la sua bambina. Non avrebbe abbandonato il frutto del suo amore al suo destino, né lei né gli altri piccoli che si erano portati via.

Gli uomini-serpe avrebbero pagato per quello che avevano commesso, lui Edward Cullen avrebbe ucciso e avrebbe riportato a casa, a qualsiasi costo, sua figlia !



Edward correva incurante del tempo che passava e del buio che sopraggiungeva. Neppure quando calò la notte si fermò. L'unica pausa che si concesse a metà pomeriggio fu per bere un po' d'acqua e per spartirsi qualche pezzetto di carne affumicata prelevata dai resti delle capanne, con Seth, poi sempre seguendo il suo lupo riprese implacabile e instancabile la caccia.



La neve cadeva lenta. Il vento si era leggermente placato ed il grosso cratere, dove avevano le tane gli Uomini- Serpe, era ormai vicino, ma questo lui non poteva saperlo.



Edward si fermò per prendere fiato e stirare la schiena indolenzita dal peso dello zaino. Poi tirata fuori un bicchiere sciolse un po' di neve da poter bere per lui e Seth.

I bambini non erano lontani visto che poteva vedere alcune tracce non ancora coperte dalla neve lasciate dal piccolo gruppo che stava inseguendo.

Probabilmente si trovavano dietro alla collina che in quel momento gli faceva da riparo. Ma se voleva affrontare quelle bestie con una minima speranza di successo, doveva essere riposato e lucido. La cosa più difficile fu tenere Seth al suo fianco tranquillo, perché il lupo con il pelo dritto continuava a ringhiare sommessamente annusando l'aria e guardandosi intorno con gli occhi semi chiusi come se scrutasse la morte in arrivo.

Era un guerriero e come tale voleva affondare i suoi denti nella gola di chi aveva osato fare del male alla sua famiglia adottiva.



Edward dopo essersi rifocillato e riposato si affacciò strisciando lentamente dalla cima dell'altura che lo proteggeva dai loro sguardi. E li vide. Vide i bambini e la sua Renesmee avanzare con difficoltà nella neve. Erano legati tutti assieme da lunghe e pesanti corde che bloccavano loro le mani e le caviglie. Sembravano tante bestie portate al macello.

Il più grande Emmett era in cima alla colonna, dietro a lui c'era un bambino più scuro di carnagione che Edward non riconobbe, mentre in fondo la piccola Alice era appena caduta per terra e piangeva disperata mentre uno di quei mostri usciti dai peggiori incubi degli uomini la stava prendendo a calci per farla rialzare.

Il piccolo Jasper, con fare bellicoso si intromise tra i due cercando di allontanare l'Uomo-Serpe per proteggere la bambina impaurita ma l'unica cosa che ottenne fu un calcio che lo fece cadere a sua volta addosso alla piccola Renesmee che osservava terrorizzata ed impotente la scena.

Stai fermo” l'ordine di Edward bloccò Seth che era già pronto ad avventarsi su quella bestia squamosa per proteggere la sua piccola padroncina, la sua sorellina senza peli, che era chiaramente in procinto di crollare come l'altra bambina.

Il lupo voltò fieramente il muso verso di lui ed emise un piccolo mugolio di protesta per nulla soddisfatto dell'ordine ricevuto. I suoi occhi brillavano di ira e sembrava che gli stesse parlando, che stesse protestando per quell'imposizione del suo amico che non capiva.

Ma Edward sapeva che in uno scontro diretto con gli uomini-serpe avrebbero avuto la peggio. Non voleva morire, non poteva rischiare di fallire, perché sapeva che era l'unica speranza per quei bambini, l'unica speranza per sua figlia.

Loro erano in sei. Gli uomini del suo villaggio si erano battuti bene portando con loro nel lungo viaggio della morte diversi Uomini-Serpe. Ma erano troppi ugualmente per affrontarli a viso aperto.

E così con il cuore che sanguinava, con il dolore che scavava nel suo petto una caverna piena solo d'ira, decise di aspettare. Silenziosamente come un fantasma scivolò indietro da dove era venuto e si nascose raggomitolandosi in un buco scavato nelle neve tenendo vicino a sé Seth. Era meglio dormire e riposare.

Anche gli Uomini-Serpe furono costretti a fermarsi. Chiaramente i bambini erano troppo stanchi per continuare a marciare e la piccola Alice non faceva che cadere rallentando il cammino di tutti. La soluzione più facile sarebbe stata quella di ucciderla e levarsela dai piedi, ma era impensabile per quegli esseri avidi. Era un essere giovane e sana. Sarebbe stata un ottimo nido per la riproduzione.

Così si fermarono e i bambini infreddoliti, spaventati, affamati e stanchi si rannicchiarono uno vicino all'altro cercando di confortarsi e di scaldarsi a vicenda. Presto le lacrime di Alice smisero di scorrere quando fra le braccia di Renesmee, che la coccolava, si addormentò sfinita.

Emmett divise i minuscoli pezzettini di cibo che gli vennero consegnati fra di loro controllando che Rosalie non mangiasse più degli altri mentre il piccolo Jasper regalò la sua razione ad Alice sperando che il cibo le desse l'indomani la forza di camminare. Anche il bimbo sconosciuto accettò il cibo da Emmett e lo divorò avidamente con un cenno di ringraziamento verso il bambino più grande.

Nessuno di loro sapeva cosa li attendeva e lo spirito di sopravvivenza messo a dura prova dalla loro breve vita era già molto sviluppato. Abituati a combattere contro il freddo, la fame e la paura, cresciuti in un ambiente al limite della sopravvivenza, già in grado di lavorare affianco agli adulti del villaggio, i bambini erano dei piccoli uomini e delle piccole donne capaci di aggrapparsi alla speranza e al desiderio di vivere come unico scopo di vita.



Era notte fonda quando Seth, con un balzo improvviso, squarciò la gola al primo Uomo-Serpe mentre Edward affondava il suo coltello nella schiena della seconda sentinella tappandogli nel contempo con la mano libera la bocca contenente una lunga lingua biforcuta nera.

Ma i nemici di guardia erano tre, e il terzo mostro, quando si accorse dell'accaduto, emise un verso spaventoso e ripugnante svegliando gli altri compagni mentre si precipitava correndo contro Edward con gli artigli al posto delle mani pronti ad ucciderlo.

Seth, però non si distrasse e gli saltò sulla schiena facendolo ruzzolare due secondi prima che questi colpisse Edward intento a finire il suo avversario, mentre gli altri tre incubi venuti dal cielo si scagliarono contro di loro emettendo sibili spaventosi.

E poi fu il caos.

Edward cercava di combattere con il suo coltello, evitando i loro colpi e i loro artigli ma soprattutto le loro lingue biforcute che lunghe e forti cercavano di arrotolarsi sul suo collo per soffocarlo. Anche Seth con i suoi denti e le sue unghie affilate si batteva ringhiando disperato. Lui voleva salvare i suoi padroni a qualsiasi costo.

Ma gli Uomini-Serpe non erano da meno. Sapevano uccidere, lo facevano con gioia e lo avrebbero nuovamente fatto senza alcun ripensamento.

Il corpo a corpo durò alcuni lunghi ed estenuanti minuti mentre i bambini gridavano avvertimenti e scagliavano palle di neve negli occhi o sul viso dei loro carcerieri.

Infine Edward, con tutta la forza che gli restava, si girò di scatto, e d'istinto infilò il suo coltello dentro la bocca aperta del mostro che da dietro lo stringeva con la lingua minacciando di soffocarlo.

La bestia si accasciò esanime ed Edward tagliata quella schifosa protuberanza che lo stringeva al corpo del nemico morente, si guardò intorno alla ricerca di un nuovo pericolo.

Ma in piedi adesso c'era solo lui.

Gli Uomini-Serpe erano tutti morti e giacevano nella neve macchiando il candido suolo con il loro schifoso sangue verde.

Edward ancora incredulo si lasciò scivolare in ginocchio respirando velocemente, cercando di riprendere il controllo di sé e di calmare i battiti del cuore. Era vivo, ce l'aveva fatta!

Papà!” La voce di Renesmee lo riscosse e lo costrinse ad alzare lo sguardo incrociando così quello spaventato della sua bambina.

Lì inginocchiata sulla neve con ancora le corde che gli stringevano i polsi la sua amatissima creatura lo osservava piana di stupore e gioia.

Senza attendere altro Edward si alzò e corse dai bambini liberandoli tutti dalle corde per poi subito abbracciarsi stretto la sua piccolina e scoppiare assieme a lei in un pianto liberatorio. Aveva avuto tanta paura di perderla, di deludere Bella che aveva sperato in lui, di morire nel tentativo inutile di liberarla. E invece! Invece erano nuovamente insieme e liberi, sebbene ancora in pericolo.



Poi con un sospiro Edward alzò nuovamente gli occhi e incontrò quelli pieni di lacrime degli altri bambini del villaggio che si erano avvicinati titubanti. Non ci voleva molto a capire. Lui era chiaramente solo, e questo significava che nessuno dei loro genitori era sopravvissuto, e il sollievo di sapere che erano salvi si stava trasformando in angoscia per il futuro.

Edward allora spalancò nuovamente le braccia invitandoli ad unirsi a lui, accogliendoli in quel nido d'amore che avevano tutti disperatamente bisogno. E insieme si strinsero forti mentre la neve continuava a cadere ricoprendoli di bianco e andando a cancellare lentamente le tracce del combattimento.

Papà può venire anche lui con noi?” la voce di Renesmee riscosse Edward che alzato gli occhi si accorse che nel suo abbraccio mancava il bambino a lui sconosciuto che intimidito non aveva osato avvicinarsi.

Come ti chiami?” gli chiese.

Jacob. Il mio nome è Jacob.” rispose prontamente il bimbo senza avere però il coraggio di guardarlo.

Il piccolo si fissava ostinatamente i piedi dondolando sul posto. Stava dimostrando di essere un duro, pensò Edward con un sorriso. “Vuoi venire con noi Jacob. Vuoi diventare mio figlio come loro?”

Il bambino alzò gli occhi e lo fissò un attimo pieno di meraviglia e di sollievo, prima di fare un balzo e finirgli fra le braccia dove Edward si affrettò a stringerlo assieme agli altri.

Si sarebbe preso cura di loro. Di tutti loro. Pensò rendendosi conto che lui era la loro unica possibilità di sopravvivenza, il loro unico punto d'appoggio.

Poi all'improvviso come un lampo che squarcia le nubi Edward si rese conto che mancava qualcosa a quel quadro idilliaco e mentre allungava ai bambini lo zaino per permettergli di rifocillarsi si guardò intorno con l'angoscia che gli deturpava il bel viso in una smorfia spaventosa.

Fu allora che lo vide.

Seth giaceva poco lontano da loro, il corpo peloso ormai ricoperto dalla neve, freddo e immobile nella morte.

Nooo” l'urlo di Edward rimbombò nella pianura facendo sussultare i bambini spaventati, mentre correva verso il corpo del suo fratello peloso.

Inginocchiato nella neve se lo strinse convulsamente a sé e diede libero sfogo alle lacrime che non riusciva più a trattenere. Pianse per lui e per Bella, pianse per gli abitanti del villaggio che aveva conosciuto ed amato. Pianse per la vita che aveva perso e per il futuro incerto che l'attendeva e guardando Seth fra le sue braccia si rese conto di quanto gli sarebbe mancato.

Lo aveva trovato nella neve da solo e salvato quando era solamente un cucciolo indifeso, lo aveva allevato e condiviso con lui ogni cosa e adesso Seth aveva restituito con orgoglio e fierezza il dono della vita che aveva ricevuto a suo tempo da Edward.



Il buon senso avrebbe suggerito ad Edward di scuoiarlo e prendere la sua carne, ma non poteva farlo, non a lui. Così, aiutato dai bambini, si limitò a seppellirlo nella neve ai piedi della collinetta. Poi preso un grosso masso lo rotolò sopra quella tomba improvvisata per nascondere il suo corpo da eventuali predatori e per segnare il luogo in cui avrebbe riposato per sempre.

Addio Seth. Addio amico mio. Non mi dimenticherò mai di te” lo salutò un ultima volta il mattino seguente quando condusse via i bambini riposati, verso il bosco, l'unico posto che conosceva in cui forse avrebbero potuto essere al sicuro dagli Uomini-Serpe.



Stringendo Renesmee con una mano e Jacob con l'altra osservava davanti a se camminare Emmett e Rosalie per mano, preceduti da uno spavaldo Jasper che faceva strada, mentre la piccola Alice, con i piedi ancora doloranti, era arrampicata sulle sue spalle.

Erano una buffa colonna, fatta solo di speranza, pensò Edward quando alzando gli occhi verso le montagne vide stupito per un attimo brillare i ghiacciai sulle loro punte.

Allora il sole esiste!” esclamò pieno di stupore .

Forse il vecchio non aveva mentito a Mike. Forse sul serio dietro alle montagne esisteva una valle verde e il sole caldo.

Forse quello era un segno del destino, meditò, sorridendo ai bambini che ignari di tutto camminavano a testa bassa per ripararsi dalla neve che aveva ripreso a cadere più fitta su di loro...

Forse l'Eden non era una favola come pensava e se lo avessero trovato...



* * *



E la realtà divenne storia, la storia divenne leggenda, e la leggenda si tramandò da generazione in generazione, finché molte centinaia di anni dopo nella valle chiamata Eden un bambina, riparandosi gli occhi dal sole, chiese a sua madre “Mamma mi racconti ancora una volta la Leggenda del Grande Padre ?”



La donna gli sorrise e annui mentre si chinava sulla verde pianura a raccogliere un fiore bellissimo dai petali bianchi screziati di nero, che portava il nome di Seth, e che era il simbolo della loro comunità.

E mentre stringeva fra le dita quel lungo e forte stelo verde con la voce dolce e impostata iniziò a raccontare “ Il vento turbinava incessante e freddo portando con sé i fiocchi di neve candida che sembravano danzare nell'aria come tante farfalle bianche...”





FINE

La Decima Tacca




La prima cosa che Edvard percepì riprendendo conoscenza fu il gusto della terra e del sangue che gli avevano impastato la bocca.

Poi fu l'odore pungente e soffocante del fumo a risvegliarlo del tutto e a riportarlo alla realtà.

Sbattendo gli occhi si sforzò di aprirli. Erano incollati dal sangue che gli gocciolava da un taglio sulla fronte e, solo dopo qualche tentativo, riuscì a mettere a fuoco la scena che lo circondava.

Cadaveri!

Era attorniato dai corpi martoriati della gente del suo villaggio.

Con gli occhi sbarrati dall'orrore si guardò intorno, mentre calde e amare lacrime scivolavano copiose, lasciandogli candidi solchi sulle guance sporche di terra e cenere.

Alte e colorate, le fiamme si alzavano dai tetti delle capanne, sembrava danzassero allegre dentro al fumo che saliva nero nel cielo, incuranti e indifferenti ai corpi riversi nella desolazione della morte.

Tutto intorno a lui gemiti di dolore provenienti dai feriti coprivano il crepitare delle fiamme, mentre i soldati romani passavano tra i moribondi mettendo fine alle loro sofferenze.

Edvard, steso a terra, la coscia trafitta da una freccia, il braccio sinistro che non rispondeva ai suoi comandi, un piccolo ma doloroso taglio sulla fronte, osservava la scena come fosse stato uno dei numerosi corvi che volavano alti nel cielo pregustandosi il bacchetto che li attendeva.

Non voleva credere a ciò che vedeva, non voleva accettare la nuda e cruda verità.

A pochi metri da lui, la sua casa, quella stessa casa di legno e paglia, spartana ma confortevole, in cui era cresciuto felice e spensierato fino a poche ore prima, stava bruciando, ed era sicuro che al suo interno, se avesse avuto la forza e il coraggio di andare a controllare, avrebbe trovato il corpo di sua madre e di sua sorella.

Probabilmente le avevano violentate o forse, se erano state fortunate, una spada pietosa aveva messo velocemente fine alle loro sofferenze. Il padre, invece, ricordò all'improvviso con un brivido di dolore, giaceva pochi metri più in là trafitto al petto da tre frecce di quegli assassini che avevano colpito a tradimento. Era morto quasi subito fra le sue braccia, non una parola, non un gemito, solo un'ultima carezza sul viso del figlio. Un saluto e la speranza che almeno lui sopravvivesse a quella carneficina annunciata.

Ma Edvard ricordava ancora le storie tremende che gli anziani raccontavano la sera vicino al falò, sulle sorti dei prigionieri di guerra dei romani.

Mormoravano spaventati che gli invasori bruciassero vivi su un enorme rogo i superstiti alle loro stragi o che li legassero ad una croce, lasciandoli poi a perire lentamente di dolore, fame e sete.

Edvard non voleva finire così, non voleva morire tra atroci sofferenze.

Lui, all'apparenza, era solo un ragazzo ma per la gente del suo villaggio era già un uomo e un guerriero. Per questo non si sarebbe arreso, non avrebbe cercato una pietà inesistente nei suoi nemici, ma sarebbe morto stringendo un'arma fra le mani, onorando così la sua famiglia, il suo popolo e i suoi dei.

Il suo braccio destro, l'unico che ancora funzionava, strisciò lentamente sul terreno fino a che la sua mano non strinse l'elsa del gladio nemico che giaceva abbandonato lì vicino. La punta era rotta, la lama scheggiata, ma ad Edvard non importava, sarebbe bastata per battersi. Sapeva che non sarebbe comunque sopravvissuto e che scappare era impossibile. Quindi l'unica sua speranza era cercare una morte rapida ed indolore battendosi contro i suoi nemici.

Puntellando il gladio contro il terreno diventato fangoso dal sangue versato e dalla pioggia caduta quella notte, facendo leva con il braccio e la gamba sana si tirò in piedi e osservò la pattuglia di cinque soldati che si stavano avvicinando cercando, fra i corpi dei morti, quelli dei loro compagni disseminati sul terreno per dar loro una degna sepoltura. I cadaveri dei barbari, come li definivano i legionari, sarebbero stati invece lasciati in pasto alle bestie selvatiche.



Ehi, guardate là. C'è ancora uno di quei bastardi in piedi.” La voce del soldato romano coprì il crepitare delle fiamme e il gemito dei moribondi.

I suoi quattro compagni si voltarono, videro Edvard, e si avvicinarono spavaldi e sicuri di sé. Lui li aspettava e quando il più assetato di sangue gli si avvicinò stringendo il suo gladio, Edvard colpì con tutta la forza che aveva.

Il soldato si scostò illeso e scoppiò a ridere nell'osservare il ragazzo finire a terra e provare ad alzarsi lentamente a causa delle sue ferite.

Questo idiota vuole ancora combattere” esclamò il legionario ridendo di lui mentre con un piede colpiva Edvard nel sedere facendolo nuovamente cadere e rotolare nel fango.

Un coro di risate scoppiò mentre i soldati, ancora ebbri del sangue versato ed eccitati dalla facile vittoria riportata in quelle terre ostili, additavano il ragazzo, divertendosi a schernirlo. Ma Edvard non voleva cedere alla disperazione, e la certezza della sorte, che pensava attenderlo se si fosse arreso docilmente a quegli assassini, gli diede la forza di alzarsi ancora una volta in piedi. Poi all'improvviso, radunando le ultime forze che aveva e tutta la rabbia che provava, si scagliò con un ringhio contro l'uomo più vicino a lui. I due caddero a terra in un groviglio di braccia e gambe e solo l'intervento dei suoi amici salvò il soldato romano dalla morte. Edvard infatti era riuscito a colpirlo con l'elsa della spada alla testa e, se non lo avessero prontamente bloccato gli altri legionari, lo avrebbe senz'altro finito in pochi secondi tagliandogli la gola.

I soldati lo strattonarono via e lo misero in ginocchio tenendolo fermo con le loro mani forti e robuste mentre lui, sporco di fango e sangue, continuava a divincolarsi indomito. Poi il più anziano in grado, mormorando frasi che Edvard non poteva capire, ma che supponeva fossero insulti, alzò la spada con l'intento di decapitarlo.

Fermo Lucio. Non lo uccidere” la voce del legato Publio Cornelio arrivò ferma e perentoria. Era un ufficiale molto giovane, quasi un ragazzo, piccolino e magro ma nonostante tutto aveva ottenuto presto la sua posizione e il rispetto dei suoi uomini. Ma soprattutto aveva un senso dell'onore tutto suo e un'arguzia per gli affari non indifferente.

Legatelo e mettetelo con gli altri prigionieri. Lo porteremo a Roma e lo rivenderemo come schiavo. È un buon lottatore a quanto pare e scommetto che il nobile Claudio ce lo pagherà molto bene. Ha tutte le carte in tavola per diventare un buon gladiatore.”

Edvard non capì una sola parola di quello che il Legato disse e non ebbe neanche occasione di ragionarci sopra perché perse subito i sensi quando i soldati, dopo avergli legato le braccia dietro alla schiena, lo colpirono alla testa per farlo stare fermo.

Lui non conosceva la lingua di Roma e nemmeno i suoi usi o i suoi costumi. Non sapeva cosa fossero i gladiatori né quale sarebbe stato il suo futuro, ma presto l'avrebbe scoperto...

Presto sarebbe diventato un famoso gladiatore, un secutor amato e conosciuto con il soprannome di Smargidus, smeraldo, dovuto ai suoi occhi verdi, brillanti e splendenti.

Con la fatica, il dolore e il coraggio dimostrato nell'arena ad ogni combattimento, avrebbe presto conquistato l'affetto e il rispetto del popolo romano e il cuore delle matrone che se lo contendevano, ammaliate da quella grazia e agilità che lo contraddistingueva in ogni duello.

E il suo vero nome e le sue origini sarebbero andate dimenticate nel corso degli anni, lasciando solo il suo soprannome impresso nelle menti dei romani fino a quando...



* * *



Smargidus, sveglia c'è una ragazza che ti cerca.”

Edvard aprì gli occhi lentamente, si tirò in piedi e iniziò a stiracchiarsi come un gatto. Il suo corpo nudo, muscoloso e pieno di cicatrici era cambiato da quando era stato portato e rivenduto come schiavo alla scuola per gladiatori gestita dal nobile Caius, un uomo che si mormorava fosse molto vicino all'Imperatore Domiziano e che si era arricchito con i combattimenti dei suoi gladiatori, che allenava e faceva esibire negli spettacoli più importanti della capitale.

La sua scuola, la Ludus Magnus, era famosa per la sua durezza ma i suoi gladiatori erano fra i migliori combattenti esistenti in tutto l'impero, tanto che lo stesso Imperatore Domiziano assisteva spesso agli spettacoli di lotta dentro ad uno strapieno Colosseo che aveva contribuito ad ampliare.

A chiamare Smargidus era stato un altro gladiatore soprannominato Invictus, ossia l' invincibile. Nessuno ne conosceva il nome vero e a nessuno importava di saperlo. Diventare gladiatori significava dimenticare e cancellare il proprio passato. Non esistevano più nomi, razze, origini, a distinguerli. Ora erano solo uomini, solo gladiatori!

Erano arrivati nello stesso periodo alla scuola di Caius, entrambi soli, prigionieri e schiavi disperati. Avevano scoperto Roma e le sue leggi, la sua lingua e le sue tradizioni ma, soprattutto il significato della parola ubbidienza e, rassegnati al loro destino, si erano allenati assieme duramente e con caparbietà, poiché entrambi condividevano il grande sogno di riconquistare la loro libertà.

Lui era grande e grosso, una montagna di muscoli dai corti capelli neri e gli occhi scuri e sornioni. Un lago calmo e profondo in cui era facile perdersi, uno specchio trasparente della sua anima allegra.

Ad Edvard bastava guardarlo negli occhi per capire ciò che gli frullava per la mente e adesso, lo sguardo divertito dell'amico, che lui considerava come un fratello, lo mise subito sul chi vive.

Si erano allenati con gli altri tutta la mattina e, dopo il pranzo, gli erano state concesse un paio d'ore di riposo durante le quali Edvard si era addormentato sfinito.

Aveva combattuto in allenamento come al solito impugnando il rudis, la spada pesante e smussata, contro Leo, il leone, un altro suo grande amico chiamato così a causa della capigliatura folta, riccia e biondissima.

Leo era un vero guerriero esperto. Aveva già vinto 15 incontri all'ultimo sangue e dopo aver conquistato la libertà dal suo status iniziale di schiavo e tre palme d'oro aveva scelto di rimanere ad allenare ed istruire gli altri gladiatori. Ormai famoso aveva dichiarato che quella vita era ciò che desiderava. Aveva sesterzi in quantità e donne che lo cercavano per i suoi favori dentro e fuori i letti. Insomma non gli mancava nulla, ma malgrado la vita agiata che tutti loro avrebbero potuto conquistare con il sudore e il sangue versato, Edvard non avrebbe mai continuato a vivere lì come aveva scelto Leo. Combatteva per la sua libertà proprio come Invictus e, sul collare che gli ricordava la sua condizione di schiavo, erano già incise nove tacche.

Una ancora.

Gli sarebbe bastato vincere ancora un altro incontro all'ultimo sangue e sarebbe stato finalmente libero.

Con gli scontri minori, quelli nei quali nessuno moriva, ma che servivano solo a divertire il pubblico e far lievitare le tasche a Caius, aveva infatti accumulato già un discreto gruzzolo che teneva nascosto dentro al proprio cuscino. Sesterzi che lui incrementava anche in un altro modo e che gli avrebbero permesso di rifarsi una vita una volta libero.

Rapido si vestì sotto gli occhi divertiti di Invictus, “Cosa hai da ridacchiare?” gli chiese capendo al volo che l'amico gli nascondeva qualcosa.

Invictus si strinse nelle spalle divertito. “Voglio vedere la faccia che farai quando incontrerai la ragazza che ti aspetta.”

Edvard non aspettava nessuno e la curiosità aumentò mentre sorrideva al compagno d'armi, “E' brutta?”

Non saprei. Dipende se ti piacciono le cerbiatte come lei o se preferisci le tigri arrabbiate come Agrippina.” Commentò alludendo alla matrona che Smargidus incontrava regolarmente, in cambio di sesterzi, per soddisfare i bisogni carnali della sua ammiratrice pazza di lui.

Edvard sbuffò, e dando una pacca alla poderosa spalla dell'amico si avviò al grande vestibolo sul quale si affacciavano la porta d'ingresso e numerosi corridoi e scale che portavano alle varie stanze e alle celle adibite a camere nelle quali riposavano i gladiatori. Da lì inoltre si poteva anche accedere direttamente al cortile interno usato per allenarsi o esibirsi davanti ad un piccolo pubblico.

La ragazza era ferma in piedi e si guardava intorno incuriosita ma quando sentì i passi fermi e sicuri di Edvard, intimidita si affrettò ad abbassare la testa.

Accompagnava sempre la sua padrona a vedere i gladiatori combattere al Colosseo ed era nervosa all'idea di conoscere Smargidus, l'idolo di tutte le donne di Roma.

Lui entrò tranquillo e le si avvicinò.

Ti conosco?” Le chiese incuriosito mentre i suoi occhi vagavano sul corpo di lei, soffermandosi sulle gambe lunghe nascoste dall'ampio vestito, sui fianchi stretti e sul seno rigoglioso al punto giusto.

No... io... mi manda la mia signora,” rispose lei balbettando e alzando gli occhi su di lui per la prima volta.

Edvard la guardò, le fissò il viso e socchiuse la bocca come per parlare ma il fiato gli mancò mentre si perdeva dentro a due occhi enormi, marroni, con mille pagliuzze d'oro al loro interno. I capelli lunghi color castagna tirati indietro secondo le usanze del tempo, incorniciavano un viso dolce e delicato su cui spiccava una bocca piccola contornata da due labbra rosse e piene che sembravano implorarlo di baciarle.

Per un attimo entrambi rimasero in silenzio imbarazzati poi lei gli allungò una pergamena arrotolata e chiusa da un nastrino.

La mia padrona ti manda questo messaggio,” sussurrò arrossendo leggermente.

Edvard la osservò, il suo meraviglioso sorriso sghembo dipinto sul viso mentre sentiva il cuore battere vertiginosamente per poi bloccarsi nel notare il collare di ferro che, come il suo, le cingeva il collo lungo e delicato.

Era una schiava, ed era sicuramente al servizio di Agrippina, pensò, adombrandosi per la sorte di quel fiore raro e bellissimo che aveva davanti.

Agrippina!

Sapeva per certo che il messaggio proveniva da lei, la pergamena infatti odorava di rose e gelsomino, il profumo che quella serpe in gonnella metteva sempre.

Agrippina!

La moglie del senatore Fabio Massimo che, ogniqualvolta suo marito si allontanava, mandava lo stesso messaggio ad Edvard.

Lui non aveva bisogno di leggere, sapeva esattamente che c'era scritto Ti aspetto questa sera e lui ci sarebbe andato. Si sarebbe presentato, l'avrebbe assecondata e avrebbe giaciuto con lei, poi presi i sesterzi sarebbe tornato alla Ludus Magnus.

Aveva bisogno di quelle monete elargite in cambio dei suoi favori e, anche se lei non gli piaceva e, anzi, la disprezzava, i suoi sesterzi, uniti a quelli guadagnati facendo il gladiatore, gli avrebbero permesso di avere una vita agiata una volta che avrebbe conquistato la sua libertà, sempre che, il dio della morte, non decidesse prima di prenderlo per mano e portarlo via con sé.

I combattimenti erano sempre più duri e sempre più difficili e morire non sarebbe stato poi così improbabile.

Aveva visto molti amici rimanere feriti in maniera orrenda, restare mutilati per sempre o, se il fato era favorevole, morire direttamente nell'arena sotto gli occhi degli spettatori che urlavano il loro giudizio.

Morte!” gridavano se non erano soddisfatti del coraggio dei combattenti ed essa calava inevitabile sul gladiatore prescelto dalla folla per soddisfare la sete di sangue del popolo romano.

Edvard sorrise alla ragazza, poi le chiese “Come ti chiami?”

Lei lo guardò e, abbassando gli occhi sui calzari mentre si mordeva il labbro inferiore innervosita, mormorò “Livia. Il mio nome è Livia.”

E allora Livia puoi riferire alla tua signora che staserà verrò da lei,” rispose lui cercando di guardarla in volto ancora una volta, poi aggiunse “Sei molto bella Livia, non privarmi dei tuoi occhi,”

Lei alzò la testa di scatto, lo fissò e poi si girò scappando come una cerbiatta inseguita dai cacciatori.

Fermati, non andartene. Rimani ancora qualche minuto con me,” le gridò Edvard inseguendola con un balzo e bloccandola per un braccio.

Devo andare. Se arrivo tardi lei mi farà frustare,” asserì la ragazza con la voce che le tremava.

Edvard pensò che fosse spaventata e lasciando la presa le disse “Scusami. Vai pure” poi si girò e si allontanò a grandi passi sparendo verso il cortile interno dove Leo lo aspettava per l'allenamento pomeridiano.

Isabella rimase ancora lì un secondo, gli occhi fissi sulle sue gambe forti e sulla sua schiena muscolosa. Nell'arena aveva potuto vedere il suo fisico e le sue abilità, lì nella ludus aveva visto da vicino i suoi occhi e il suo sorriso. Non aveva tremato per la paura come lui aveva immaginato, ma per l'emozione di sentire le sue mani forti stringerla a sé.

Quell'uomo era qualcosa d'incredibile, di magico, ma lei sapeva che lui era al disopra di qualsiasi speranza.

Quel gladiatore era proprietà privata di Agrippina, la sua padrona. Un sogno irraggiungibile per un’umile schiava come lei, un desiderio che sarebbe rimasto per sempre tale.



* * *



Edvard arrivò puntuale alla domus della bella Agrippina. Pur essendo uno schiavo, aveva il permesso e la libertà di recarsi da lei. Claudio sapeva che fare incontrare le matrone ai suoi gladiatori non faceva altro che rafforzare la loro fama e smorzare la loro fame. Un connubio che faceva solo del bene a tutti e soprattutto alle sue tasche.

Erano infatti spesso i nobili, spinti dalle loro mogli, a richiedere gli incontri, e Claudio guadagnava proprio su questi.

Stava per bussare, quando il portoncino finemente decorato si aprì ed Edvard si trovò davanti Livia.

Benvenuto. La mia signora ti sta aspettando,” mormorò lei sempre tenendo gli occhi rivolti verso il terreno per non incrociare i suoi due meravigliosi smeraldi. Aveva paura di tradire i suoi sentimenti, che lui le leggesse in volto la lussuria che aveva iniziato a covarvi profonda.

Lui le sorrise mentre con due dita le alzò il mento fino a perdersi nei suoi occhi color cioccolato.

Te l'ho già detto, sei molto bella. Non mi privare della vista del tuo sguardo” poi senza preavviso attirato da una forza magnetica che nessuno dei due sapeva potesse esistere, Edvard si avvicinò e posò le sue labbra su quelle di Livia. I loro corpi tremarono e i loro cuori iniziarono a battere forte all'unisono mentre lui metteva fine a quella pazzia. Adesso li separavano pochi centimetri... metri, chilometri parve loro non desiderando altro che toccarsi nuovamente, che fondersi in un corpo solo.

Smargidus, finalmente sei arrivato!” La voce di Agrippina arrivò come un tuono improvviso ad interrompere quel momento magico, a risvegliarli e riportarli alla realtà.

Lui sospirò e si affrettò ad allontanarsi ancora di più da Livia, spaventato dalle conseguenza che lei avrebbe potuto patire se Agrippina avesse intuito quello che era appena accaduto fra di loro, cercando di mostrarsi meno turbato di quanto lo fosse in realtà da quell'unico bacio e da quel corpo che continuava a gridargli di stringerlo a sé e ad attirare i suoi occhi.

Venere, la dea dell'amore, aveva appena approvato il loro incontro.

Le piaceva quel profondo e violento desiderio di avvicinarsi e baciarsi che entrambi avevano provato in quel fugace contatto rubato e sorridendo beata benedisse quella nuova coppia e quel nuovo sentimento facendolo sbocciare in maniera definitiva e inarrestabile nel loro cuore.

Edvard, pervaso da una strana energia che lo fece per un attimo tremare violentemente, con calma studiata, calandosi sul viso una maschera d'indifferenza e soffocando i propri desideri, si voltò sorridendo a quella serpe a cui avrebbe venduto da lì a poco il suo corpo ma non la sua anima.

Essa ormai era stata rapita da Livia.

Agrippina gli si avvicinò sinuosa come un gatto e il suo forte profumo entrò nelle narici di Edvard che arricciò il naso per l'odore pungente sforzandosi di sorriderle.

Lei lo afferrò per le possenti spalle e lo baciò con passione incurante della presenza di Livia, mentre lui allungava le mani accarezzandole il collo dolcemente, cercando di concentrarsi su di lei per risvegliare il suo corpo dormiente.

Stasera sei freddo nel baciare, Smargidus. Che cosa ti succede?” Gli chiese Agrippina passando le dita sulle sue labbra ancora umide di lei.

Lui scosse la testa “Sono solo stanco” si giustificò tirando le labbra in un sorriso che lui stesso percepì essere falso.

Oh povero il mio Smargidus, dovrò sgridare quel cattivone di Claudio, così non va bene. ” Rispose civettuola prendendolo per le mani e attirandolo ancora più vicino a sé, poi, dopo un ultimo bacio lascivo, si voltò di scatto “ Vieni, andiamo a letto. Hai bisogno di riposare” affermò dandogli la schiena e tirandoselo appresso per una mano.

Lui la seguì accondiscendente e, mentre stava per uscire dal vestibolo si voltò.

I suoi occhi cercarono ed incontrarono quelli di Livia. Quelli di lei erano tristi, addolorati e rassegnati ma si riscossero e presero vita incendiandosi, quando lui muovendo solo le labbra senza emettere un fiato le disse “Perdonami. ”

Agrippina si rese subito conto che le cose non andavano come al solito.

Il suo Smargidus sembrava distratto, distante, e non riusciva a capire il perché di quel comportamento anomalo e freddo.

Irritata pensò di punirlo nel solo modo che conosceva: giocando con lui.

Così quando giunsero nella sfarzosa camera dove dormiva normalmente, dopo avergli intimato di stare immobile e in silenzio, iniziò ad usarlo: spogliandolo lentamente, accarezzandolo nei posti in cui aveva imparato essere più sensibile, godendo della sua pelle morbida e liscia, dei suoi muscoli potenti, del suo ventre piatto e del suo pene che piano piano reagiva al tocco fugace della sua padrona.

Edvard la guardava spogliarlo e giocare con il suo corpo, accarezzarlo languidamente e stuzzicarlo senza sosta, senza poter reagire o muoversi. Sapeva quanto Agrippina odiasse se lui le disobbediva e quanto potesse essere crudele a letto, ma soprattutto cosa lei si aspettasse da lui. Doveva in ogni caso sforzarsi di soddisfarla come al solito per non attirare l'attenzione su Livia. Aveva paura che Agrippina avesse scorto la luce che aveva illuminato i loro occhi, il loro sguardo disperato, la scintilla che aveva iniziato a bruciare nel loro animo.

Era avida e prepotente, ma non stupida, la sua benefattrice.

Così chiuse gli occhi con un sospiro e immaginò che quel corpo femminile e caldo appartenesse a Livia e che fosse lei lì vicino ad accarezzarlo in maniera languida e vogliosa.

Quando Agrippina lo vide fremere ai suoi baci, quando si rese conto che lui non sarebbe riuscito ancora a trattenersi immobile di fronte a quella tortura studiata, convinta di essere la causa del suo desiderio, lo fece sdraiare sul letto e, sfilatosi la cintura di cuoio, gli legò i polsi alla testiera di legno pregiato.

Lo avrebbe fatto soffrire per la sua freddezza iniziale, lo avrebbe torturato con studiata lentezza, lo avrebbe usato a suo piacimento beandosi del suo bisogno e del suo corpo.

Edvard la lasciò fare, non si oppose malgrado gli sarebbe bastato fare forza per spezzare o sciogliere quell’insignificante legame. Aprendo gli occhi la guardò curioso fino a che lei gli buttò sul viso una pezza di cotone spessa e bagnata.

Non voglio che tu veda. Sentirai solo,” mormorò leccando le goccioline d'acqua che scendevano lungo la sua gola scoperta.

Edvard si irrigidì cercando di respirare sotto lo spesso panno mentre un brivido violento di paura e lussuria lo scuoteva dal suo interno.

Ma Agrippina non aveva finito con lui e dopo averlo percorso con le labbra fino ai suoi lombi gonfi, soffermandosi a leccare e gustare il suo sapore, giocando con le goccioline che inumidivano la punta della sua mascolinità, istigandolo a un piacere che non gli avrebbe ancora concesso, si alzò bruscamente e afferrò una delle tante candele.

Impietosa, godendo dei suoi lamenti e dei suoi sussulti improvvisi quando la cera gli cadeva sulla pelle provocando le piccole bruciature inaspettate, Agrippina continuò a torturarlo sommessamente lambendo con la lingua e succhiando avidamente le zone arrossate e calde che si avvicinavano sempre di più ai suoi genitali in un lento ed estenuante percorso di desiderio e paura che eccitava sempre di più entrambi.

E quando fu stufa di quel gioco, quando il suo bisogno si fece inarrestabile, senza preavviso, senza alcuna parola, tenendolo sempre prigioniero della sua volontà lo montò come il cavallo di razza che era, esplodendo insieme a lui.

I loro gemiti di piacere non più trattenuti si alzarono rompendo il silenzio della stanza, impietosi delle orecchie che dietro la porta ascoltavano.

Livia, accucciata nel corridoio, piangeva sommessamente immaginando Edvard sopra la sua padrona montarla senza sosta, i suoi muscoli tesi, il suo sorriso soddisfatto, i suoi occhi affascinati dallo spettacolo mentre diventava rosso dallo sforzo e dal piacere che stava provando.

Ma Livia non poteva sapere che sotto lo straccio bagnato, mentre il suo amore proibito raggiungeva il piacere per trovare la pace dei sensi e soddisfare la sua benefattrice, Edvard piangeva e la sua bocca era tirata in una smorfia di vergogna mentre la sua mente era concentrata proprio su Livia... la donna con la quale immaginava e desiderava fare sesso in quel momento. La fantasia che gli stava permettendo di adempiere al suo dovere e soddisfare la bella e perversa Agrippina.

Ma le orecchie di Livia non erano le sole ad ascoltare.

La schiava Turia, dal passato oscuro, aveva ricevuto una missione, e con un sorriso perverso disegnato sulle sottili labbra corse nella sua stanza e scrisse un messaggio... un messaggio che avrebbe cambiato molte cose e provocato molto dolore.



* * *



Nella settimana che seguì Edvard continuò la sua vita allenandosi ogni giorno con la solita dedizione malgrado la sua mente fosse perennemente altrove. Non aveva più rivisto Livia, gli era proibito uscire senza autorizzazione e se avesse provato ad uscire di nascosto, sarebbe stato cercato e punito severamente per la sua disobbedienza. Ma i suoi pensieri erano costantemente con lei.

Dov'era? Cosa stava facendo? Gli mancava?

Lui era confuso, non gli era mai capitato di essersi così fissato su una donna. Di non riuscire a pensare ad altro che a quella meravigliosa dea.

La notte, nel buio della sua piccola e spoglia dimora, quando la stanza agli sembrava chiudersi su di lui fino a soffocarlo, Edvard, giacendo insonne sul duro letto di paglia compressa, ripensava a lei. Ai suoi occhi marroni e dolci, ai suoi capelli che, una volta sciolti sulle spalle, dovevano essere folti e morbidi, alle sue labbra piene e carnose. Ricordava persino il mite profumo di pulito e sapone che il suo corpo emanava. E, nel silenzio del dormiveglia, la mano di Edvard scivolava in mezzo alle sue gambe dove le ossa del bacino formavano una V perfetta appena coperta di una morbida peluria ramata. Le sue dita lunghe smaniose e impazienti andavano a cercare, sicure e senza timori, il suo membro duro, stringendolo e percorrendolo lentamente per tutta la sua lunghezza per poi ricominciare da capo in un movimento sensuale e seducente che gli strappava dei gemiti soffocati di piacere, mentre la sua mente era perduta dentro di lei, dentro al suo corpo, dentro al desiderio che, sapeva, lo stava annientando.

Smargidus. Per favore, vuoi concentrarti?” La voce irritata di Invictus lo richiamò alla realtà.

Edvard si stava allenando con il suo amico, entrambi avevano stretto in pugno un lungo e pesante bastone intagliato e smussato che imitava nella forma un’ascia. Era un’arma inconsueta per entrambi, ma Leo insisteva affinché si allenassero con le asce in legno per prepararsi a qualsiasi eventualità e per allenare quei muscoli della schiena che normalmente sollecitavano di meno. Erano rimasti soli ed erano ormai stanchi, quando Smargidus scrollò le spalle scocciato dal giusto rimprovero, e si sforzò di riportare la concentrazione su Invictus che, fermo davanti a lui, lo osservava ridacchiando chiaramente divertito.

Smettila di distrarti e cerca di allenarti seriamente. Domenica hai un incontro. Te lo sei forse dimenticato?” Lo riprese il grosso lottatore sorridendo e affondando con la sua arma contro quella di Smargidus.

Edvard si spostò rapidamente, parando il suo attacco e pronto a scagliarsi ancora una volta contro di lui quando sentì una strana tensione nel collo, come se una corrente d'aria improvvisa lo avesse colpito.

Tutto il suo corpo prese a formicolare in allerta e lui voltò lo sguardo per cercare la causa di quella strana sensazione, quando i suoi occhi andarono a sbattere contro due pozzi marroni dolci e ammalianti.

Per un attimo si bloccò, il tempo sembrò fermarsi per lui, mentre invisibili catene gli si stringevano intorno alla gola rischiando di soffocarlo.

Livia era lì.

Seminascosta da una colonna lo osservava con gli occhi brillanti ed eccitati. Era sgusciata silenziosa come una ladra all'interno della Ludus per cercarlo e adesso da quella posizione così ravvicinata poteva vedere i muscoli di Smargidus contratti e lucidi di sudore, le sue gambe tornite e snelle piantate nel terreno come tronchi d'albero e il cuore le batteva forte dall'emozione.

Neanche lei aveva più dormito serena. Lo aveva visto di nascosto allontanarsi dopo che la sua padrona lo aveva pagato e lasciato libero. Aveva ascoltato i suoi gemiti e lo aveva odiato. Ma per quanto si sforzasse non era riuscita a dimenticarlo. Non era riuscita a scordare i suoi occhi verdi, profondi e teneri, lo sguardo affascinato e lussurioso che le aveva rivolto, la sua voce roca e sensuale mentre le diceva di guardarlo e soprattutto le sue labbra che avevano mimato quell'unica parola piena di speranza e rimpianto. No! Decisamente non solo non riusciva ad odiarlo, ma aveva bisogno di rivederlo.

Smargidus era entrato nei suoi sogni e nei suoi pensieri. Si era insinuato sotto la sua pelle e nel suo cuore nel modo più profondo possibile e per quanto avesse provato a dimenticarlo, non appena era riuscita ad allontanarsi dalla casa della sua padrona con una scusa, si era diretta lì.

Come una falena non aveva potuto evitare di cercare la luce, anche se sapeva che questa avrebbe potuto bruciarla.

Era andata a cercarlo, consapevole di poter essere rifiutata e allontanata e, appoggiata a quella colonna, adesso lo fissava con gli occhi dilati e spaventati dal desiderio lussurioso che stava provando nell'osservarlo.

Smargidusss!”

Il grido di Invictus seguì di un attimo l'urlo spaventato di Livia, quando Edvard, che si era distratto a guardarla, non vedendo arrivare il colpo inferto dal suo avversario, era crollato a terra privo di sensi senza un solo gemito, sotto i loro sguardi attoniti e spaventati.

Fratello! Svegliati! Idiota, perché non hai parato?” La voce di Invictus era adirata e spaventata nel contempo, mentre si era inginocchiato incredulo al fianco dell'amico per soccorrerlo.

Poi, alzato lo sguardo in cerca di chi aveva emesso quel grido tipicamente femminile che aveva udito, vide la fanciulla che osservava immobile e atterrita la scena davanti a sé.

Ah. Ecco perché. Sono stati quei due occhi marroni a distrarti, dunque. Stupido ragazzo innamorato! ” Commentò a bassa voce il grosso guerriero con un sospiro irato, poi si rivolse a Livia “Tu! Donna! Vicino alla fontana ci sono delle pezze pulite di cotone, bagnane una e portamela!” La sua voce autoritaria e urgente la fece scattare come una lepre.

Quando si avvicinò reggendo la stoffa bagnata vide che Invictus aveva girato l'amico su un fianco e con il volto corrucciato stava studiando la sua testa nel posto in cui lo aveva colpito.

Il grosso guerriero prese la pezza fredda e la premette con dolcezza sulla tempia di Smargidus, poi si rivolse alla ragazza. “Stai qua e tienigli premuto il panno sulla tempia. Non perde sangue ma temo sia stato un colpo violento. Io vado a chiamare il medico. Se riprendesse conoscenza non fallo alzare, ma tienilo sdraiato e tranquillo finché non torno con un aiuto.”

Livia annuì mentre prendeva il posto di Invictus al fianco del suo Smargidus continuando a tenere premuto il panno contro la sua testa e sperando che non fosse nulla di troppo grave.

Smargidus...” lo chiamò dolcemente quando gli vide sbattere gli occhi incerto.

Allora è vero, sei qui e sei proprio tu!” Mormorò lui mettendo a fuoco quella celestiale visione e sdraiandosi sulla schiena, ancora stordito, mentre allungava una mano per accarezzarle il viso incredulo.

Ti ho sognata talmente a lungo che pensavo fossi un fantasma scaturito dalla mia mente. O forse sono morto e finito al cospetto degli dei?”

Livia sorrise divertita, mentre sentiva prendere fuoco il suo io più profondo al contatto delle sue dita sulle guance.

Non sei morto, malgrado la paura che mi hai fatto prendere, ed io sono reale,” gli rispose afferrando con la mano libera quella di Smargidus che stava scendendo verso le sue labbra, toccandola ed esplorandola per accertarsi che non fosse una visione.

Dimostramelo.” la provocò lui con un tremito di felicità repressa.

Lei era lì. Vicino a lui.

Livia gli sorrise ed il mondo sembrò illuminarsi d'immenso mentre le labbra di lei scesero ad assaggiare quelle di lui.

Lentamente e timidamente si sfiorarono mentre una strana energia sembrò scaturire dai loro corpi.

Direi che sta bene,” commentò Marco, il medico che si occupava dei gladiatori della scuola e delle loro ferite, osservando Edvard tirarsi su e afferrarla per la nuca mentre la loro passione divampava e il loro bacio, all'inizio casto, diventava sempre più approfondito e sensuale.

Eh già. Direi che si è ripreso piuttosto bene,” mormorò Invictus con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Allora è lei la misteriosa fanciulla che lo distrae giorno e notte,” commentò Leo, che si era unito preoccupato per la salute del suo protetto e che aveva notato il mutare del comportamento avvenuto in Smargidus quella settimana.

A quanto pare, adesso, almeno, abbiamo una colpevole in carne ed ossa,” confermò Invictus scuotendo la testa divertito.

Forse dovrei visitarlo,” mormorò incerto Marco, chiedendosi se fosse il caso di interrompere i due prima che degenerassero e dessero spettacolo davanti a tutti.

Lascialo in pace. Sono sicuro che lei lo ha già guarito. E poi Smargidus non è uno sciocco e sa come e dove fermarsi... spero.” proferì ridendo Leo.

Insieme, senza più aggiungere altro, i tre si girarono lasciando Edvard a godere di quel breve e raro momento di felicità.

Mi sei mancato,” mormorò Livia staccandosi a malincuore dalla sua bocca per riprendere fiato e chiedendosi se non fosse solo un sogno il poterlo finalmente stringere a sé e il suo baciarla così appassionatamente.

Anche tu.” Rispose lui, poi i suoi occhi, all'improvviso, si incupirono come se una tempesta fosse sopraggiunta ad oscurare il sole.

Ti ha mandato Agrippina?” Le chiese, temendo che fosse quello il vero motivo per la quale Livia fosse andato a cercarlo.

No. Lei e il padrone saranno fuori per tutta la settimana e io dovevo andare al mercato a comprare alcune stoffe per la cucitrice...” spiegò lei timidamente mentre le sue gote si coloravano di un rosa pallido.

La Ludus non è propriamente vicina al mercato,” rispose Smargidus sorridendo nel vederla con il volto arrossato e le labbra rosse, vive per i baci che si erano appena scambiati.

Lo so ma… volevo vederti e la cucitrice ha promesso di coprirmi...” mormorò abbassando gli occhi intimidita senza immaginare che si sarebbe trovata a fissare la sua mascolinità risvegliata e pronta.

Le sue gote arrossirono ulteriormente diventando adesso rosso fuoco mentre Edvard ridacchiando con le sue lunghe dita le alzava il mento. “Te l'ho già detto non privarmi dei tuoi occhi.” Mormorò affascinato dal suo viso e conscio del pericolo che lei stava correndo per poterlo incontrare.

Livia. Io...” le parole gli morirono in bocca. Cosa doveva dirle? Edvard non aveva mai avuto un vero amore, non sapeva neanche come si facesse a corteggiare una ragazza. Benché adesso fosse un uomo, era stato catturato molto giovane e, sebbene avesse avuto diverse amanti prima che Agrippina ottenesse l'esclusiva a suon di sesterzi, non aveva nessuna esperienza su come bisognasse comportarsi o su cosa si dovesse dire con esattezza a qualcuno che ti aveva rapito il cuore prima di ogni altra cosa.



E, visto che non era un poeta ma solo un uomo d'azione e un guerriero, decise di agire nell'unico modo che conosceva e, baciandola, si alzò, la prese fra le braccia muscolose e la condusse nella sua piccola, umida e spoglia cella. Poi una volta chiusa la porta, la fece adagiare sul suo letto mentre le sue mani callose ma inaspettatamente delicate iniziarono a percorrerle tutto il corpo, esplorandola ed accarezzandola languidamente mentre lei mormorava il suo consenso. I loro vestiti finirono uno dopo l'altro sul duro terreno mentre insieme esploravano ed ammiravano per la prima volta i loro corpi nudi provando un piacere fino ad ora sconosciuto ad entrambi.

Hai tantissime cicatrici,” mormorò lei percorrendo con la mano il suo corpo segnato.

Smargidus le sorrise dolcemente mentre la sua mano afferrava quella di lei portandosela alla bocca e baciandole ciascun dito con lentezza e sensualità.

Sono un gladiatore,” rispose semplicemente con un sorriso tetro, “ed uno schiavo” aggiunse mesto, ripensando per un attimo a quando era stato catturato e a quando, arrivato a Roma spaventato e indisciplinato, era stato piegato con la forza per indurlo ad accettare il suo destino.

Ti amo,” mormorò lei ingoiando le lacrime che le erano salite agli occhi, consapevole della loro condizione comune.

Anch'io ti amo,” rispose lui, adesso finalmente conscio dei propri sentimenti condivisi.

Le cose non avrebbero mai potuto cambiare per loro. Erano schiavi assoggettati ai capricci dei loro padroni, ma soprattutto a quelli di Agrippina che non avrebbe mai dovuto sospettare nulla. Ma nonostante tutto la speranza di un futuro migliore germogliò nei loro animi, una pia illusione dettata da quel nuovo sentimento sbocciato con la forza di un vento impetuoso.

E, immersi nella consapevolezza che il destino avrebbe potuto dividerli da un momento all'altro, entrambi si donarono completamente senza più remore, senza dubbi o paure, raggiungendo la pace dei sensi insieme a quella del cuore finora in tumulto.



* * *



Il tempo passò indomito senza portare grossi cambiamenti. Edvard continuò ad allenarsi e a partecipare ai vari scontri fra gladiatori organizzati dall'avido Claudio duranti i quali combatteva accumulando soldi e fama, in attesa di quello definitivo e mortale che gli avrebbe permesso, nel caso fosse sopravvissuto, di incidere una nuova tacca sul suo collare di ferro.

La decima Tacca.

La tacca che avrebbe cancellato la sua schiavitù, rendendolo finalmente un uomo libero e un cittadino di Roma, in grado di scegliere del suo futuro.

Il tempo passò indomito mentre Livia cercava ogni occasione per andare a trovare di nascosto il suo Smargidus. E quando riuscivano ad incontrarsi, insieme passavano momenti dolcissimi e spensierati, cercando di escludere il presente dalle loro menti rinchiudendosi in una bolla di felicità, poiché erano entrambi consapevoli che prima o poi il loro sogno sarebbe finito. E mentre si conoscevano sempre di più, il loro amore cresceva e si rafforzava. Amore che condividevano con ardore, amore che non era solo un bisogno fisico, ma la fusione di due anime affini che necessitavano l'una dell'altra e che erano ormai indivisibili.

Il tempo passò indomito, mentre gli incontri clandestini di Edvard con Agrippina continuavano regolari. Per lui sottrarsi ad essi sarebbe stato impossibile e per mantenere segreto il rapporto instaurato con la schiava della sua signora e proteggerla dalle sue ire, Edvard continuò a venderle il suo corpo e a soddisfarla carnalmente, mentre il suo cuore e la sua anima piangevano disperati ogni volta di più e il suo cuscino si riempiva di quei sesterzi adesso tanto odiati.

Il tempo passò indomito, indifferente ai continui rapporti di Turia e alla rabbia crescente del senatore Fabio Massimo che, informato da quest'ultima, aveva saputo di essere tradito regolarmente e aspettava solo il momento giusto per vendicarsi dei due amanti segreti.

Il tempo passò indomito, quando Claudio fu convocato dall'Imperatore Domiziano che gli chiese di organizzare un grande incontro con una lotta all'ultimo sangue tra gladiatori per festeggiare la vittoria riportata dalle truppe romane sui ribelli barbari. Claudio cercò di ribellarsi, perdere un gladiatore avrebbe comportato un danno ingente per le sue casse, ma l'imperatore lo rassicurò che sarebbe stato lautamente risarcito della perdita se entrambi i gladiatori avessero combattuto bene.

Il tempo passò indomito quando il senatore Fabio Massimo sborsò una cifra esorbitante e ricattò Claudio, minacciandolo di divulgare un documento compromettente per il quale avrebbe potuto essere tacciato di tradimento, pur di avere la possibilità di scegliere di persona i gladiatori che avrebbero combattuto.

L'ora della sua vendetta era finalmente arrivata.

E quando il tempo smise di passare indomito, i giochi erano ormai fatti, il dado era stato tratto, ed Edvard iniziò a prepararsi per il combattimento della sua vita, quello che, se avesse vinto uccidendo il suo avversario, gli avrebbe aperto il collare da schiavo e le porte della libertà.

* * *

Smargidus non sapeva contro chi avrebbe combattuto e la cosa non gli interessava neanche. Il giorno prima era stato chiuso in isolamento in una cella del Colosseo e nutrito abbondantemente. Quando aveva chiesto spiegazioni a Claudio su quell'insolito comportamento, egli aveva risposto “E' meglio per te stare tranquillo. Devi riposarti e soprattutto concentrarti. Non puoi permetterti distrazioni. Questo è un combattimento all'ultimo sangue, non il solito spettacolo. Gli spettatori saranno migliaia, l'imperatore Domiziano sarà presente e solo uno di voi due lascerà l'arena sulle sue gambe.

E se vincerai uccidendo il tuo avversario, sarai un uomo libero e la schiavitù diverrà solo uno sbiadito ricordo.”

Ciò bastò ad Edvard che, tuttavia, era troppo eccitato per riposare. Passò la notte precedente, infatti, a pregare Marte e Minerva che lo aiutassero e lo proteggessero, a pensare alla sua Livia per attingere da lei la forza necessaria e a preparare e controllare le armi e il suo equipaggiamento con meticolosa cura, sapendo che da esso dipendeva la propria vita.

E finalmente il giorno arrivò.

Aiutato da un silenzioso e preoccupato Leo, Edvard si passò gli olii sulle braccia, sulla poderosa schiena e sulle gambe, poi iniziò a vestirsi.

Stai attento Smargidus,” gli raccomandò Leo, la voce incrinata e preoccupata “ricordati solo che non hai scelta; o tu o lui. Uno di voi due dovrà necessariamente morire. La sabbia del Colosseo dovrà tingersi per forza di rosso, queste sono le regole, per cui non indugiare, non avere pietà... se non per la tua anima. La libertà ha sempre un prezzo da pagare e nel tuo caso sarà altissimo.”

Edvard guardò l'amico stupito.

Mai parole simili in tanti anni e in tanti incontri erano uscite dalla sua bocca. La tristezza che Leo irradiava era come una buia foschia che lo avvolse per poi sparire quando la campana che convocava i combattenti rintoccò sorda come un inno alla morte.

Perché mi dici questo?” gli chiese. Ma lui tacque scuotendo la testa ed allontanandosi con gli occhi rivolti a terra, pieni di lacrime.

Leo aveva già ripetuto quelle stesse parole quella mattina e il suo animo era grave e pesante, così pesante che quando si avvicinò al suo amico Marco, gli disse addolorato “Quella di oggi è la giornata più dolorosa che abbia mai vissuto”

Lui che non era più giovane e che non era riuscito ad impedire la morte di tanti gladiatori a cui voleva bene, malgrado avesse prestato le sue cure con tutto il suo animo e abilità, si girò a guardarlo e lo abbracciò stretto a sé.

È la vita dei gladiatori... Tu sei un sopravvissuto... non tutti hanno la tua fortuna.”



* * *



Edvard era un secutor e come tutti loro indossava dei gambali di metallo imbottiti di lana per assorbire i colpi, una manica di metallo sul braccio destro per ripararlo dalle ferite, un corto gonnellino che gli permetteva di muoversi con agilità mentre il petto rilucente di olio era nudo a parte due cinghie di cuoio che gli cingevano il torace. L'agilità era la sua arma migliore, unita ad un corto e maneggevole gladio e a un piccolo pugio infilato nel fodero dietro la schiena.

Nel braccio sinistro portava con disinvoltura uno scudo imponente e concavo, tondeggiante nella parte superiore, e privo di appigli per evitare che vi rimanesse agganciata la rete del reziario contro il quale avrebbe combattuto. Lo scudo gli copriva dalle ginocchia al viso, protetto a sua volta da un elmo liscio e tondo per evitare la rete letale.

L'elmo era sempre molto pesante e la visiera costituita da fori in genere molto piccoli. Per questo Edvard normalmente non lo indossava, voleva respirare e vedere bene, era questa sua particolarità e spavalderia il motivo per cui i suoi occhi verdi, grandi e splendenti avevano attirato l' attenzione del pubblico donandogli il soprannome che ormai tutti conoscevano e veneravano come un eroe.

Ma quel giorno Edvard avrebbe indossato l'elmo obbligatoriamente e i piccoli buchi gli avrebbero impedito di vedere con nitidezza il suo avversario.

Una difficoltà in più, voluta dall'Imperatore, per rendere più interessante l'incontro,” gli mentì Claudio, pur sapendo che invece il vero artefice di quell’inopportuna imposizione era stato il senatore Fabio Massimo.

Il reziario entrò nell’arena del Colosseo da una porta molto vicina a quella da cui arrivò Edvard e, assieme, si diressero a passo deciso sotto la tribuna in cui era accomodato Domiziano, l'imperatore di Roma. Senza rivolgersi una parola, entrambi consapevoli della presenza dell'avversario al loro fianco e certi che sarebbe stato un incontro terribile.



Arrivati davanti al palco chinarono entrambi la testa salutandolo a gran voce “Ave Caesar, morituri te salutant poi giratosi verso la folla alzarono le armi in segno di saluto provocando un boato in risposta. Il pubblico era equamente diviso. Conosceva bene entrambi i lottatori che gli erano stati presentati prima del loro ingresso, ed era consapevole che sarebbe stato un duello infernale.

Anche il reziario era equipaggiato come al suo solito. Nel braccio rivestito dalla protezione teneva un lungo tridente, mentre nell'altra mano stringeva una lunga e pesante rete alle cui estremità c'erano dei pesi. Se fosse riuscito ad imprigionare il suo avversario con la rete, finirlo con il tridente sarebbe stato molto semplice. Per questo, questi robusti e forti lottatori erano spesso schierati contro i Secutor.

La forza bruta contro l'agilità.

Edvard, infastidito e preoccupato per i buchi troppo stretti che gli impedivano di vedere l'altro combattente con nitidezza e sbuffando per il caldo, si sistemò meglio quell'odioso impedimento, rimanendo stupito quando si accorse che anche l'altro gladiatore aveva un elmo identico al suo che gli celava il volto; normalmente i reziari non portavano quella protezione così restrittiva.

Probabilmente anche il suo avversario era stato obbligato contro la sua volontà ad indossarlo, pensò Edvard, rasserenato da quella scoperta.

Era stato Claudio in persona a minacciarli separatamente, “Se ti sfilerai quest'elmo durante il combattimento per qualsiasi causa, verrai ucciso senza indugio dai soldati schierati ai lati nell'arena. Questo è l'ordine e la volontà dell'imperatore”

Un valido motivo per ubbidire senza discussioni allo scomodo e pericoloso disagio, dal momento che tutti e due speravano di uscire vincitori da quel incontro mortale.

Edvard, dopo aver lanciato uno sguardo alla folla urlante e aver rilasciato un lento e grosso sospiro per calmarsi, battendo la spada sullo scudo per salutare il suo avversario, pregò ancora una volta che gli dei lo assistessero e lo proteggessero.



* * *



Duellarono a lungo scambiandosi colpi e leggere ferite. Il pubblico urlava il suo incitamento o il suo disappunto ogni qualvolta uno dei due riusciva ad evitare un colpo mortale. Edvard, ferito superficialmente in diversi punti, iniziava ad essere esausto. Muoversi con l'elmo che non lo faceva respirare e lo scudo pesantissimo iniziava a fiaccarlo riducendone la velocità e i riflessi. Ma anche il reziario sembrava in difficoltà: i suoi colpi meno potenti, la rete mossa con più lentezza.

I due si fermarono a guardarsi da dietro i buchi dell'elmo. Erano pari, sembrava che nessuno dei due potesse avere il sopravvento sull'altro facilmente e questo stava sfinendo anche la loro energia mentale.

Normalmente gli incontri venivano chiusi più velocemente ma entrambi sembravano in difficoltà.

Edvard lo guardò scuotendo leggermente la testa. Il suo avversario si muoveva in maniera prevedibile e si era reso conto che la situazione era reciproca. Entrambi riuscivano ad immaginare con anticipo le mosse dell'altro e ciò aveva portato a quella situazione di stallo.

Lentamente iniziarono a muoversi in tondo studiandosi per l'ennesima volta, cercando un punto vulnerabile nell'altro o una falla nelle loro difese, mentre il pubblico rumoreggiava sempre di più.

Così non sarebbero venuti a capo di nulla, pensò Edvard che, agendo d'istinto, buttò lo scudo a terra. Era divenuto troppo pesante per il suo braccio e lo stava affaticando eccessivamente. Il reziario lo guardò da dietro il pesante elmo poi, con una mossa repentina, buttò via la rete tirando fuori da dietro la schiena il pugio. Il pugnale che anche Edvard afferrò nella mano libera.

Un boato di approvazione riempì il Colosseo mentre Domiziano si sistemava più comodamente sul trono che lo ospitava.

Avevi detto che erano i migliori guerrieri, ed avevi ragione Claudio. Non ho mai visto un incontro così equilibrato”

Claudio gli sorrise tristemente. Lo sapeva benissimo e sapeva anche perché entrambi riuscissero ad anticipare così bene le mosse dell'avversario.

I due gladiatori si affrontarono nuovamente. Più che un combattimento sembrava diventato un corpo a corpo. Entrambi erano ormai ricoperti di sudore, polvere e sangue fuoriuscito da numerosi tagli e ferite superficiali. Se Edvard si basava sulla velocità nello scansare gli affondi dell'avversario, cercando nel contempo un varco sicuro per avvicinarsi, il rezore usava la sua forza bruta per provare ogni volta ad immobilizzarlo o a colpirlo a distanza con il tridente.

Livia dall'alto degli spalti nascosta tra la folla urlante guardava lo spettacolo con il cuore stretto in una morsa dolorosa. Non voleva che il suo Smargidus morisse in quell'arena polverosa e a ogni ferita da lui riportata nel combattimento, sentiva nel petto il cuore sobbalzare, mentre calde lacrime scivolavano sulle sue guance, bianche dal terrore.

Anche la sua padrona, la bella e fredda Agrippina osservava il combattimento dal palco regale, divisa fra la paura per il suo amante e il sadico piacere del sangue.

Certo, a letto Smargidus era eccezionale e lei avrebbe dovuto procurarsi un sostituto per rallegrare le sue notti solitarie quando il senatore si allontanava, ma il saperlo in pericolo la stava eccitando più di ogni altra cosa.

Il senatore Fabio Massimo invece osservava il combattimento con un sorriso maligno disegnato sul volto. Comunque sarebbe andata, anche se avesse vinto quel bastardo di Smargidus, l'amante di sua moglie, ne sarebbe comunque uscito a pezzi e la vendetta sarebbe stata ugualmente dolce se lui fosse sopravvissuto a spese del suo avversario.

Edvard si avventò sul reziario ancora una volta sfruttando un leggero sbandamento di quest'ultimo, forse dovuto alla stanchezza. Anche lui era sfinito e buttando la spada e stringendo di più il pugio nella mano, letteralmente lo abbracciò infilandogli la corta lama nella schiena all'altezza delle scapole mentre cadevano avvinghiati.

Ma il sorriso soddisfatto di Edvard gli morì sulle labbra allorché sentì una fitta dolorosissima all'attaccatura della gamba destra, sotto al gluteo. Al rallentatore, con il dolore che si propagava in ogni sua fibra, il gladiatore dagli occhi di smeraldo fissò sgomento il nero tatuaggio a forma di pesce che il suo avversario portava sulla scapola sinistra dove era affondata la sua lama.

Lui lo aveva già visto! Lui sapeva chi si nascondeva dietro a quell'elmo e in preda ad una furia ceca, sapendo che probabilmente non ci sarebbe stata nessuna vittoria e nessun superstite a quel combattimento, si sfilò l'odiato elmo che gli aveva impedito di notare il particolare. Poi, abbracciando il corpo dell'uomo che amava come un fratello, tolse l'elmo dal suo viso per guardare in faccia un’ultima volta Invictus che lo osservava con gli occhi sgranati dallo stupore e che poi, inaspettatamente, gli sorrise ridacchiando come era solito fare.

Che cretino che sono. Dovevo accorgermene che eri tu da come combattevi. Ci siamo allenati così tante volte insieme...” la sua voce si spezzò in un gemito di dolore.

Edvard insensibile alle urla della folla, girò piano l'amico e con sua gioia constatò che il colpo inflitto era laterale e non mortale come aveva temuto in un primo momento. Il loro amico e medico Marco sarebbe riuscito a salvarlo quasi sicuramente se fosse intervenuto in tempo e se lui non avesse rimosso il pugio impedendo così una brutta emorragia.

Anche il colpo ricevuto da lui non era di per sé mortale e, malgrado il dolore e il sangue che fuoriusciva abbondante, Edvard sapeva che anche la sua ferita avrebbe potuto guarire se il loro amico guaritore si fosse preso cura di lui.

Per un attimo i due gladiatori si guardarono negli occhi incuranti del grido che ormai la folla urlava all'unisono.

Morte!” Chiedevano a gran voce. “Combattete!” Urlavano inferociti da quella pausa apparentemente ingiustificata.

Era stato definito e presentato come un duello all'ultimo sangue e adesso gli spettatori pretendevano che il sangue sgorgasse e bagnasse di rosso la sabbia.

In teoria entrambi avrebbero dovuto rialzarsi e continuare a combattere fino a che uno dei due, sfinito dalla ferita riportata, non avesse spirato l'ultimo soffio di vita sulla lama dell'avversario, per soddisfare la gioia crudele dei romani.

Dobbiamo continuare a combattere,” mormorò piano Invictus cercando di mettersi in piedi. Sapeva di essere messo peggio, sapeva che Edvard aveva più possibilità di vincere, ma non si sarebbe tirato indietro dalla sua sorte. “Finiscimi alla svelta, uccidimi senza indugiare e sopravvivi, amico mio.” gli disse annuendo convinto.

Smargidus scosse la testa, si alzò barcollante trascinandosi dietro la gamba ferita e disarmato, con le mani che gli tremavano dal dolore e dalla rabbia, iniziò ad allontanarsi dando la schiena ad Invictus, al suo imperatore e a tutto il popolo di Roma.

Non si sarebbe mai macchiato le mani del sangue del suo migliore amico!

Che i romani e l'imperatore lo mandassero pure a trovare il dio degli inferi, lui non avrebbe più combattuto. Non quel giorno, non contro quello che lui considerava un fratello.

La folla ammutolì un attimo per quel gesto che appariva ai loro occhi una vigliaccheria, poi riprese il suo urlo con più vigore “Morte!” gridavano gli spettatori senza capire perché i gladiatori avessero smesso di battersi, dal momento che anche Invictus era fermo in ginocchio nel centro dell'arena con gli occhi abbassati sul terreno sabbioso, disarmato e per nulla intenzionato in apparenza a combattere ancora.

I legionari di guardia, schierati lungo i bordi dell'arena, ubbidendo ad un gesto dell'Imperatore, avanzarono armati e circondarono i due gladiatori ribelli.

Anche Domiziano, come tutti gli altri, guardava l'atteggiamento dei due feriti, stupito e incredulo. Così si rivolse a Claudio in cerca di una spiegazione che da solo non trovava: “Che succede? Perché si sono fermati? Perché non finiscono l'avversario?”

Lui scosse la testa e sospirò. “Appartengono entrambi alla mia scuola. Si conoscono e sono amici,” mormorò affranto.

Da dietro intervenne il senatore Fabio Massimo additando i due gladiatori che adesso si guardavano immobili, le mani abbassate, i pugnali piantati nel corpo che si stava tingendo del rosso del loro sangue che sgocciolava dalle ferite.Non importa. Devono continuare il combattimento. È un incontro all'ultimo sangue. Non possono fermarsi così.”

Invictus, in ginocchio si teneva il braccio offeso con l'altro e tremava, consapevole che entrambi sarebbero stati uccisi per quella ribellione, ma neanche lui avrebbe più alzato la mano contro il suo amico Smargidus.

Portateli qua vicino,” ordinò Domiziano ai soldati, alzando poi la mano per zittire la folla.

I due vennero afferrati e trascinati davanti all'imperatore, dove vennero fatti inginocchiare al suo cospetto.

Domiziano, che si era avvicinato alla balaustra, li osservò pensieroso. Guardò il sangue e le ferite, vide l'orgoglio nelle loro schiene dritte e il dolore nei loro occhi.

Questo è un duello all'ultimo sangue. Uno di voi due deve morire. Dovete riprendere a combattere.” Affermò, osservandoli attentamente alla ricerca di una loro reazione di paura.

Non lo ucciderò, mio Cesare, non combatterò più per voi. Date pure ai vostri soldati l'ordine di uccidermi qui e adesso in modo che il mio sangue bagni l'arena. Se è una vita che volete... prendetevi pure la mia.” Disse immediatamente Smargidus appoggiandosi con le mani sulla sabbia e tirando fuori il collo come se avesse un ceppo davanti a lui su cui posare la testa in attesa del colpo fatidico.

No, mio imperatore. È lui che deve essere salvato. È un combattente migliore, non troverete un secutor più bravo di lui in tutto l'impero. Date invece ai vostri uomini l'incarico di uccidere me,” affermò Invictus, mostrando il petto pronto ad essere trafitto e aprendo le spalle pieno di orgoglio per il suo gesto.

Domiziano sorrise.

Gli imperatori difficilmente conoscono la lealtà e l'amicizia. E vedere quei due valorosi sfidare la morte per salvare l'altro era uno spettacolo a dir poco affascinante e inconsueto.

Sempre con il sorriso sulle labbra, divertito suo malgrado, l'imperatore di Roma si rivolse alla folla.

Chi deve morire secondo voi?” Chiese, lasciando agli spettatori il giudizio finale.

Per un attimo regnò il silenzio, poi scoppiò il caos. Erano entrambi molto amati e i loro tifosi iniziarono a gridare il nome dell'avversario. Una cacofonia incomprensibile che venne interrotta da una voce femminile acuta proveniente da dietro le spalle di Domiziano.

Fu infatti Agrippina a pronunciare ad alta voce e con il cuore stretto “Smargidus”.

Non avrebbe voluto che finisse così, ma quando aveva visto quello che era accaduto si era resa subito conto del ruolo avuto da suo marito. Lui aveva organizzato tutto. Questa era la sua vendetta verso i due amanti. E lei se voleva ingraziarsi nuovamente Fabio Massimo e farsi perdonare delle sue scappatelle doveva dimostrare fedeltà al senatore, suo marito. “A morte Smargidus, in fondo è stato lui a levarsi l'elmo per primo infrangendo le regole e sfilandolo poi al suo avversario,” disse decisa ad alta voce. Le sue parole portatrici di verità giunsero chiare e risolute all'orecchio dell'Imperatore, finora indeciso sulle sorti dei due gladiatori che attendevano in silenzio il suo verdetto.

Domiziano alzò gli occhi verso di lei annuendo mentre riconosceva giusto il suo ragionamento e stringendosi nelle spalle, infastidito suo malgrado dal dover emettere una condanna a morte, silenziata la folla decretò ad alta voce che sarebbe stato Smargidus a morire.

All'udire il verdetto Invictus, sgomento e incredulo, cercò disperatamente di ribellarsi al suo ordine ma fu bloccato dalle braccia dei soldati e trascinato lontano.

Evdard invece, pur sentendo il temuto e sperato giudizio, rimase fermo nella stessa posizione.

Gli occhi chiusi per evitare di guardare la lama cadere sul suo collo, pregò che chi lo avrebbe colpito, sapesse il fatto suo e riuscisse nel suo intento al primo tentativo, facendola così finita velocemente. Lui non aveva paura della morte. Ci aveva giocato assieme tante volte, era stata sua compagna di viaggio a lungo.

Temeva invece la sofferenza, il dover sopportare il dolore di numerosi colpi prima che la sua testa rotolasse infine via dal corpo.

Lacrime silenziose scivolarono dai suoi occhi e caddero sul terreno sabbioso formando piccoli cerchi umidi che sarebbero presto stati assorbiti come il sangue che di lì a poco sarebbe fuoriuscito dal suo collo reciso.

Livia, che aveva assistito alla scena con terrore e orrore, lanciò un urlo disperato quando sentì il verdetto di Domiziano.

Non era possibile! Non potevano ucciderlo così, a sangue freddo, in quella maniera terribile e, sgomitando disperata, si fece largo tra la folla saltando poi dentro l'arena e correndo dal suo amore in pericolo.

L'Imperatore, la mano ormai alzata pronta a dare l'ordine alla guardia che si era posizionata al fianco di Edvard, si bloccò nel vedere quella giovane e bellissima schiava correre verso di loro.

Vi prego no!! Ha combattuto bene e con valore. Salvatelo, concedetegli la grazia!” lo implorò, cadendo davanti a Smargidus che provò inutilmente ad alzarsi per scacciarla via e metterla in salvo.

Prendete la mia vita piuttosto,” gridò lei afferrando il gladio di Smargidus abbandonato sul terreno e appoggiandoselo al petto. “Permettetemi di morire al suo posto. Che sia il mio sangue ad essere versato oggi e non quello di questo valente gladiatore!”

Domiziano la osservò incuriosito e affascinato suo malgrado dalla devozione di quella ragazza innocente.

Era un imperatore equilibrato, attento al benessere e alla felicità del popolo e, perché no, anche attento alle sue casse.

Quanto vale la vita di quel gladiatore Claudio?” Chiese rivolgendosi al nobile che sedeva vicino a lui con l'aria avvilita.

Tanto Cesare,” disse immediatamente, rianimandosi. “Sono entrambi i migliori, e perderli significherebbe un gran danno per la mia Ludus e un grande esborso per le casse dello stato.”

Domiziano annuì poi, alzata la mano per zittire la folla, parlò ad alta voce affinché tutti sentissero la sua volontà:

Questa donna, questa insignificante schiava è pronta a dare la vita per un gladiatore. Pronta a morire al suo posto, al posto di un guerriero che ha combattuto con onore e valore di fronte a voi. Egli ha affrontato senza paura il suo avversario. Si è battuto coraggiosamente e adesso è pronto a morire con onore, senza paura o tentennamenti, per salvare un commilitone, proprio come i nostri legionari morti per rendere grande Roma. Voi volete sangue e morte, ma io dico che siamo qua per festeggiare una vittoria ottenuta con la vita dei nostri soldati caduti. Dei nostri eroi. E che questi due gladiatori, questi due valorosi combattenti, hanno mostrato il loro valore in questa arena, si sono battuti senza risparmiarsi, hanno mostrato quale forza di volontà possiede il popolo di Roma.

Il nostro popolo. E questa donna, questa schiava, pronta a sacrificarsi al posto di questo valente guerriero, ci ha ricordato quali siano i sentimenti e la forza che rendono grandi il nostro Impero, la nostra cultura e i nostri uomini! Se siamo i padroni del mondo, se il nostro impero è così grande e potente, lo dobbiamo anche alle nostre donne, siano esse libere romane o umili schiave.

Pertanto io, Domiziano, vostro Cesare, affermo che per oggi è già stato versato troppo sangue e troppe lacrime! Io dico che oggi deve essere un giorno di gioia per tutto il nostro popolo. E che bisogna festeggiare la vittoria riportata sui nostri nemici e non piangere sui nostri caduti.”

Dopo un attimo di silenzio, con un improvviso e sfuggente dolce sorriso sul viso spigoloso aggiunse, “Andate in pace prodi gladiatori, riposatevi e guarite dalle vostre ferite, perché il vostro coraggio, la vostra abilità e il vostro cuore hanno reso onore al popolo di Roma.” La sua voce si spense ancora un attimo e dopo aver lanciato un ultimo sguardo e un sorriso diabolico alle facce stupite dei presenti sul palco aggiunse “Così, io, Domiziano, vostro Imperatore e vostro Cesare, ho deciso!” Concluse in un boato di gioia che esplose nel Colosseo mentre zoppicando i due feriti, ancora increduli della grazia ricevuta, vennero accompagnati fuori dall'arena da Livia e dai soldati che li avevano circondati. Lì vennero accolti da Leo e Marco ebbri di gioia nel vederli tornare entrambi vivi.



* * *



Erano passati sette giorni. Giorni lunghi e difficili. Malgrado la ferita fosse più grave, Invictus si era ripreso subito. Ma lo stesso non era stato per Smargidus.

Una volta usciti dall'arena entrambi i gladiatori erano stati sistemati sulle barelle e portati all'interno per essere curati mentre Livia era stata allontanata.

Fermati donna. Tu non puoi entrare!” La voce di Leo era determinata sebbene sul viso ci fosse un dolce sorriso e gli occhi la scrutassero pieni di gratitudine e ammirazione per il suo coraggio.

Voglio vedere come sta Smargidus,” lo implorò lei.

Ma Leo scosse la testa. “Ci occuperemo noi di lui, verrà curato nel migliore dei modi ma alle femmine non è permesso entrare in questo luogo.” E detto questo l'accompagnò fuori, chiudendosi poi la porta alle spalle in maniera definitiva.

Così, rassegnata, si era allontanata pregando che gli dei vegliassero sul suo amore e che il medico abituato a curare quel genere di ferite dimostrasse ancora una volta la sua abilità e lo salvasse.

Purtroppo la ferita di Edvard si era infettata, malgrado, dopo aver estratto il pugnale e cucito il taglio, Marco avesse bruciato la carne proprio per evitare quell'eventualità tanto temuta.

La febbre era salita velocemente, tormentandolo ed indebolendolo e nemmeno i salassi per pulirgli il sangue cattivo sembravano avere effetto. Dopo cinque giorni d'immensa sofferenza Edvard era infine caduto in un torpore dei sensi che lo stava portando a perdere lentamente la vita.

Claudio entrò nella stanza adibita ad infermeria dove Marco assisteva quello che ormai considerava un moribondo.

Come sta?” Chiese il proprietario della Ludus avvicinandosi al letto dove bianco in viso riposava Edvard, ormai sfinito e indebolito da quell'ultima battaglia che purtroppo stava perdendo.

Marco scosse la testa impotente. “Non reagisce. È talmente debole che non riesco più nemmeno a nutrirlo. Grazie alle erbe medicinali che ho applicato l'infezione è ormai quasi guarita e la febbre si è abbassata a livelli accettabili ma è come se si stesse lasciando morire. Resta sveglio e cosciente solo per pochi minuti ormai.”

Claudio guardò il medico. Aveva le occhiaie dalla stanchezza ed era chiaro dalla sua voce depressa che aveva fatto tutto il possibile per salvare quel ragazzo. Aveva messo in campo tutte le sue conoscenze sulle erbe, altrimenti l'infezione non si sarebbe mai fermata e la febbre non sarebbe scesa. Ma il buon medico non aveva pensato che c'era un’altra malattia da sconfiggere... e lui conosceva l'unica medicina che poteva ancora salvare quel gladiatore.

Smargidus aprì gli occhi ! Ascoltami!” Gli ordinò perentorio Claudio sedendosi sul letto nel quale il ragazzo sofferente giaceva in un dormiveglia agitato.

Edvard aveva imparato ad ubbidire senza tentennamenti a Claudio.

Era stato lui ad acquistarlo come schiavo quando, prigioniero, era arrivato a Roma.

Il ragazzo barbaro era stato piegato con la forza ed aveva imparato ad eseguire gli ordini con la frusta o con le altre terribili punizioni corporali subite ad ogni mancanza. Nel tempo aveva imparato a rispettare i voleri del suo padrone e adesso era consapevole che ogni sua parola era legge e obbediva ormai in maniera automatica.

Gli occhi di Edvard si aprirono lentamente e con fatica.

Ascoltami attentamente!” Ordinò Claudio, ancora una volta, vedendo le iridi del suo gladiatore preferito brillare di attenzione e febbre mentre lottava contro le palpebre che tentavano di richiudersi. “Io ti ordino di guarire. Invictus l'ha già fatto. È salvo e in ottima salute e in questo momento si sta allenando con Leo. Tu hai combattuto bene, con coraggio, mi hai fatto fare un’ottima figura e guadagnare parecchi sesterzi e malgrado il sangue non sia stato versato nell'arena come stabilito dal regolamento, ho deciso di concederti ugualmente la Decima Tacca. Ho già dato gli ordini affinché essa venga incisa sul tuo collare quando sarai guarito... e quando riuscirai a metterti in piedi sarai finalmente libero di andare per la tua strada e costruirti la tua vita. E se lo desideri potrai andare a cercare quella coraggiosa ragazza che ti ha salvato la vita. Hai finalmente conquistato con la spada ciò che a lungo hai desiderato. Adesso non ti resta che sconfiggere e vincere la morte che ti sta reclamando, per ottenere la tua ricompensa.”

Smargidus non disse nulla ma chiuse gli occhi mentre un sorriso gli rischiarava il volto tirato.

Ecco, adesso guarirà,” affermò Claudio “Ora ha un motivo valido per cui lottare e vivere,” aggiunse soddisfatto.

Marco lo guardò stupito, “Così perderai il tuo migliore gladiatore. Se lo renderai libero non credo che continuerà a combattere per te. Non è come Leo. ”

Claudio si voltò a guardare il suo migliore medico con gli occhi che gli brillavano “Lo avrei perso comunque. La morte lo avrebbe reclamato nel giro di un paio di giorni, lo hai detto tu stesso. E un gladiatore morto non serve a nulla. E poi, nonostante non abbia ucciso il suo avversario, si è ampiamente guadagnato la sua libertà,” aggiunse sibillino ripensando all'accordo stretto con il senatore Fabio Massimo: “ Come vuoi. Farò combattere, all'ultimo sangue, Smargidus contro il suo migliore amico in questo scontro folle e fratricida, ma in cambio mi devi consegnare il documento che attesta il mio tradimento.”

E così era stato fatto!



* * *



Claudio aveva avuto ragione. Ciò che mancava a Smargidus era proprio un motivo valido per cui continuare a vivere.

Infatti dopo pochi giorni Edvard si era ripreso ed adesso stava cavalcando lentamente per le strade di Roma visto che non sarebbe riuscito a camminare a lungo. Zoppicava ancora vistosamente ma soprattutto era ancora troppo debole per affrontare il lungo percorso che lo attendeva. Marco avrebbe voluto tenerlo a letto di più ma lui, non appena si era reso conto di riuscire a stare in piedi da solo, si era allontanato dopo aver ringraziato e salutato tutti senza voler sentire ragioni.

Gli sarebbero mancati i suoi amici e i combattimenti. Gli incitamenti della folla che lo osannava e la sensazione di sentirsi forte e invincibile, ma finalmente aveva ottenuto ciò che desiderava: la libertà.

Quando la porta dell'odiata domus si aprì davanti a lui, Edvard avanzò titubante nel vestibolo e una voce forte e maschile lo accolse.

Benvenuto Smargidus. Cosa ti porta in questa casa a quest'ora?” Il senatore Fabio Massimo era lì in piedi e la sua voce era roca e stizzita “Se è mia moglie Agrippina che cerchi, sappi che è andata via.” Aggiunse poi guardando l'uomo che lo fissava con gli occhi bassi.

La mano di Edvard si alzò lentamente a toccare il suo collo per avere conferma di non aver sognato. Il collare di ferro, simbolo della sua schiavitù, era stato rimosso quella mattina come promesso da Claudio, e lui ora era un uomo libero e non più uno schiavo.

Con un profondo respiro tirò su la testa e lo fissò negli occhi, un’operazione per lui prima impossibile visto il suo basso rango. Ma adesso era finalmente libero e con dei diritti. Ma la sua voce, malgrado tutto, risuonò ancora pacata e riverente “Non cerco vostra moglie. Sono qua per un altro motivo.”

Il senatore fissò quegli occhi verdi, profondi e decisi e vi scorse la consapevolezza di non essere più uno schiavo ma anche una vena di timore e reverenza.

Un sorriso tirato gli allargò le labbra e mentre ad alta voce disse “Rufo, versaci due coppe di vino bianco.”

Un ragazzino minuto e timido, dagli occhi leggermente tirati in su e la carnagione olivastra, si mosse con una grazia quasi felina.

Edvard lo guardò versare il vino, stupito dalla sua presenza che non aveva notato prima e dalle movenze decisamente femminili del ragazzo.

Un bel maschietto vero?” gli chiese il senatore, facendo cenno al nuovo schiavo di allontanarsi e uscire dalla stanza, mentre gli occhi attenti ed avidi posati su di lui sembravano spogliarlo ad ogni passo.

Edvard lo guardò un attimo pensoso mentre afferrava il bicchiere, poi con un sospiro disse “Voi sapevate,” non era un’accusa ma solo una constatazione.

Dei giochini di mia moglie con te? Sì. Ho iniziato a sospettare un po' di tempo fa, poi ho avuto le prove. Da quando vi incontravate?” La voce era calma, quasi rassegnata.

Da un po'.” Rispose lui vago. Era assurdo ferirlo ulteriormente.

Lui sorrise, “Molto diplomatico da parte tua, per essere solo un bel gladiatore. Comunque sia, in fondo, mi hai fatto un favore. Con la scusa del suo tradimento ho allontanato Agrippina mandandola in campagna da sua cugina. Lì non potrà fare altri danni... ed io ho trovato qualcun' altro di più piacevole a scaldarmi il letto, piuttosto che quella tigre arrabbiata e perversa.”

Edvard lo guardò indeciso, poi posò su un basso mobiletto la coppa di vino intonsa che si era solo rigirato tra le mani. “Siete stato voi ad organizzare l'incontro. Era la vostra vendetta,” affermò con un filo di voce.

Vendetta? Che parola brutta e pericolosa da pronunciare, Smargidus. Diciamo che è stata la mia lezione. In fondo, alla fine l'hai scampata, no? E anche il tuo amico ho sentito dire...” affermò sorridendogli apertamente per la prima volta.

Lui si limitò ad annuire. Iniziava ad avere paura. Non era bravo con le parole mentre queste erano l'arma che il senatore usava normalmente.

Un’arma che poteva facilmente diventare letale.

Comunque non mi hai ancora detto il perché sei venuto qua. Cosa vuoi da me?” gli chiese il senatore sorseggiando e gustando lentamente il suo vino.

Voglio che mi vendiate Livia. La schiava che lavora per voi.”

Ecco l'aveva detto. E con una mano si staccò il sacchetto di cuoio robusto che portava in vita. Era pieno di monete, tutte quelle che aveva guadagnato, tutte quelle che aveva messo da parte in quegli anni per garantirsi un futuro una volta che avesse smesso di combattere e avesse conquistato la sua libertà.

Ma siccome non ci sarebbe stato alcun avvenire senza di lei...

Edvard era pronto a rinunciare a tutto pur di donarle la libertà che lui era riuscito a conquistare, pur di poter passare gli anni che gli restavano da vivere assieme. Sapeva che senza denaro il futuro non sarebbe stato facile, ma... era pronto a tutto. Insieme avevano sconfitto la morte, insieme potevano costruirsi una nuova vita.

Nulla li avrebbe potuti fermare, nemmeno la povertà.

Il sacchetto cadde pesantemente sul mobile vicino al senatore il quale affondò la mano afferrando delle monete e tirandole fuori, con lo sguardo pensoso mentre le faceva scivolare attraverso le dita e tintinnare nuovamente dentro.

Già, è vero. Mi ero dimenticato. La schiava che ti ha salvato la vita, se non sbaglio,” affermò circospetto. “Agrippina voleva portarsela dietro. Penso volesse vendicarsi del suo amore tradito. Amare il suo giocattolo, soffiarglielo via da sotto al naso... no, non andava affatto bene. Era un affronto che mia moglie non le avrebbe facilmente perdonato. È sempre stata vendicativa, lo sai.” Commentò assorto mentre un brivido di paura scendeva nella schiena di Edvard.

Ma non l'ho permesso,” affermò il senatore con un sospiro, “Una piccola vendetta nei confronti della mia cara e infedele mogliettina.” Aggiunse ridacchiando, poi indicando i sesterzi gli chiese “Te li ha dati Agrippina? Sono i soldi che ti elargiva in cambio del tuo corpo?”

Edvard rimase un attimo in silenzio, insicuro su cosa rispondere, poi decise che era meglio dire la verità.

Sì, in parte. È vero, lei mi pagava profumatamente, e qui dentro ci sono i suoi compensi ma ci sono anche quelli che Claudio ci donava come incentivo e i premi che ho guadagnato negli incontri o che mi sono stati elargiti dai nobili soddisfatti dello spettacolo offerto... o più facilmente dalle loro mogli,” aggiunse con un sorrisino timido.

Fabio Massimo ridacchiò, nonostante tutto non riusciva ad odiare quell'uomo. Lo aveva visto combattere più di una volta e lo ammirava per questo. Ammirava il suo coraggio e la sua determinazione, mentre invidiava il suo fisico e la lussuria che sembrava scatenare in ogni donna, anche se in fondo era stato solo un povero disgraziato, uno schiavo, che aveva venduto il corpo a quell'arpia di sua moglie in cambio di denaro.

Il senatore ci pensò un attimo, poi afferrata la borsa con i sesterzi e gliela tirò fra le braccia.

Riprenditi i tuoi soldi, gladiatore. Considerali un equo compenso per aver sopportato mia moglie per tutto questo tempo. Non oso immaginare cosa ti abbia fatto passare quella tigre assatanata.” gli disse, poi aggiunse “E ovviamente portati pure via quella schiava. Non mi serve. Troppe donne qua dentro non vanno bene, chiacchierano troppo e poi ho Rufo che può fare il suo lavoro benissimo,” aggiunse vedendolo trasalire.

Edvard rimase un attimo in silenzio scioccato poi abbassò la testa in una formale riverenza, “Grazie” disse emozionato, sapendo che con quei soldi avrebbero potuto mantenersi per qualche tempo e magari comprarsi una casetta in campagna con un po' di terreno da coltivare.

Vattene, sparisci. Non ti voglio più vedere.” Gli intimò Fabio Massimo, poi aggiunse severo “Vai via da Roma, lontano da qua e se mai ti troverò ancora nei pressi della mia dimora o di mia moglie ti farò crocifiggere. Non lo scordare mai !”

Edvard lo guardò e annuì. La minaccia non lo spaventava, aveva altri piani e un intero mondo davanti a sé.



* * *



Livia, inginocchiata a terra, stava lavando il pavimento. Insieme alle altre schiave stava pulendo la grande sala dove l'indomani il senatore avrebbe dato una sfarzosa festa.

La voce delle ragazze riempiva le sue orecchie ma lei non le ascoltava. La sua mente era lontana chilometri.

Vedeva e rivedeva le scena del duello nella sua mente e si domandava se lui fosse sopravvissuto e, se sì, che fine avesse fatto. Non aveva più avuto sue notizie. Forse era partito con la sua padrona, con Agrippina. Forse invece aveva cambiato semplicemente amante. Se fosse stato così si sarebbe rassegnata, ma se lui fosse morto... il dolore al petto la piegò in avanti. Era sempre così quando i suoi pensieri volgevano al peggio. Era come se un ferro rovente le perforasse il petto.

All'improvviso si accorse del silenzio che la circondava. Le altre ragazze si erano ammutolite e immobili fissavano qualcosa alle sue spalle.

Lei si girò e rimase a fissare due occhi verdi come smeraldi che la guardavano.

Smargidus... sei vivo!” Urlò, alzandosi da terra come un fulmine e precipitandosi fra le sue braccia, rischiando di farlo cadere.

Sei tu. Sei proprio tu,” gli disse incredula accarezzandogli le braccia con dolcezza per essere sicura fosse reale. Temeva fosse un fantasma venuto a tormentarla, una visone creata dalla sua mente impazzita dal dolore. Era pallido e chiaramente dimagrito, ma era sempre lui, sempre il suo amore proibito.

No.” Disse piano lui afferrando con le sue mani grandi e forti quelle di lei. “Smargidus è morto.” Affermò, lasciandola per un secondo interdetta e costernata e con gli occhi spalancati dal terrore.

Non sono più un gladiatore e uno schiavo. Adesso sono un uomo libero. E il mio nome è Edvard.” Aggiunse con quel sorriso sghembo che la trapassava ogni volta.

Lei arretrò, all'improvviso spaventata, gli occhi puntati sulla striscia di pelle pallida e bianca che un tempo era coperta dal collare adesso sparito. Poi si affrettò ad abbassare lo sguardo come si conveniva ad una schiava di fronte ad un cittadino romano.

Sei venuto a salutarmi? Partirai?” Gli chiese, ingoiando a vuoto e sentendo le gambe che le stavano cedendo e il cuore farsi in mille pezzettini.

Sono venuto a comprarti. Tu adesso sei mia Livia,” mormorò lui allungando le mani per accarezzarle le spalle nude.

Sì, mio signore,” mormorò lei, ferita, inchinandosi davanti a lui, davanti al suo nuovo padrone.

Non hai capito Livia? Non hai capito amore mio?” Le disse lui afferrandola e facendola raddrizzare. “Sono venuto a liberarti,” affermò con un sorriso sulle labbra nel vederla spalancare gli occhi sorpresa. “Ho comprato e riscattato la tua libertà,” aggiunse con la voce che gli tremava leggermente dall'emozione.

Poi inginocchiandosi davanti a lei, tenendole una mano stretta fra le sue, disse “E adesso ti chiedo di rispondermi da donna libera: mi vuoi sposare? Vuoi venire via con me? Vuoi diventare mia moglie davanti ad ogni cittadino romano e non?”

Un silenzio pieno di aspettative ed emozione cadde tutto intorno a loro.

Il tempo sembrò fermarsi, dilatarsi all'infinito prima che Livia con gli occhi pieni di lacrime gridasse: “Sì. Sì. Sìììì. Lo voglio Edvard. Lo voglio”.

Lui le sorrise raggiante poi si alzò barcollando e l'afferrò repentino prendendola in braccio e sollevandola da terra agevolmente, come fosse una leggera e impalpabile piuma, mentre le braccia di lei si stringevano al suo collo muscoloso e le loro labbra bagnate dalle lacrime di entrambi si univano in un bacio liberatorio.

Sempre tenendola fra le sue braccia, malgrado zoppicasse vistosamente, Edvard diede le spalle a quella casa tanto odiata, mentre le altre schiave esplodevano in applausi e grida di gioia.

Una meravigliosa favola si era realizzata sotto ai loro occhi.

E sempre stringendola stretta a sé, come se qualcuno potesse rubargliela, Edavard salì con lei sul cavallo che Leo, Invictus e Marco gli avevano donato quella mattina quando, emozionato, aveva detto loro addio e insieme, senza più voltarsi, si allontanarono in mezzo alla folla dicendo per sempre addio a Roma e a tutto il loro passato, diretti verso l'unica meta che ora entrambi agognavano... la felicità.



Fine ?



E vissero felici e contenti?

Nessuno lo saprà mai, così come non si conosce nulla della vera vita di Smargidus. La storia ci ha tramandato per scritto solo il suo soprannome e la certezza che fu un grande gladiatore... nulla di più. Non so se morì nell'arena o riuscì a conquistare la sua libertà e la sua felicità.

Ma io voglio immaginarlo tornare nelle terre che lo avevano visto nascere da uomo libero e con Livia generare quei figli che continueranno a rendere grande l'Impero di Roma e dal quale, in qualche arcano modo, ancora adesso ne siamo la discendenza.





Fine